Daspo, riconoscimento facciale, interventi dell’autorità giudiziaria. Diciamolo: da anni, le intemperanze che, con il tempo, sono diventate atti di violenza allo stadio oggi sono episodi marginali dentro e fuori dagli impianti sportivi, grazie a un’efficace politica di prevenzione e di repressione dei fenomeni violenti. (Ma c’è da dire che, sui campi minori, sembra che i controlli della legalità e dell’ordine pubblico siano del tutto inadeguati. Ancora oggi gruppi di energumeni assaltano arbitri, giocatori, dirigenti di squadre avversarie).
Ciò che continua a essere invece fuori dal controllo di legalità, e mette in discussione la tenuta dell’ordine pubblico, sono gli “agguati” che si manifestano lontano dai contesti sportivi: in autostrada, per esempio, com’è avvenuto recentemente tra le tifoserie napoletana e romanista, alla stazione di servizio “Badia al Pino” nei pressi di Arezzo. Non c’è giustificazione che tenga. Si tratta di atti di criminalità che con il tifo non hanno nulla a che vedere. Sono episodi scatenati da professionisti della violenza a prescindere. Si leggono spesso interpretazioni sociologiche, che vorrebbero in un certo senso metabolizzare queste violenze, inquadrandole all’interno di un fenomeno più ampio di contestazione del sistema. Quasi fossero episodi di una lotta di gruppi sociali meno garantiti contro la società delle diseguaglianze e del capitalismo selvaggio.
Letture giustificazioniste che andrebbero stroncate sul nascere, cestinate come improponibili. Quello che dobbiamo e possiamo dire è che queste analisi, del resto minoritarie, non colgono l’essenza della filosofia e delle ragioni di queste violenze: sono forme di un nichilismo che risale all’inizio del secolo scorso.
Rabbia, delusione, precarietà di vita e di prospettive di lavoro. Mancanza di punti di riferimento nella politica e nelle istituzioni locali e di governo. Sicuramente questo alimenta la violenza gratuita. Ma non è possibile tradurre tutto ciò in un progetto politico o sociale. Anche in Francia, qualche anno fa, si è cercato di interpretare le violenze dei “gilet gialli” come espressione di un malessere diffuso nelle metropoli europee, che devono fare i conti con i fenomeni migratori e le crisi economiche. Sono suggestive, ma non corrispondenti alla realtà, le similitudini tra queste violenze e la rabbia e le rivolte nelle banlieues, che sorgono all’interno di ambienti sociali non garantiti.
Persistono invece, dagli albori del nuovo millennio, fenomeni di interazione tra segmenti della società marginale. Gli ultras delle curve – che mischiano tifo e affari criminali, come lo spaccio di droga sugli spalti e fuori da essi – sono talvolta semplici criminali travestiti da tifosi. Così come accade che militanti dell’estrema destra e della sinistra antagonista, o anarco-insurrezionalista, possano ricongiungersi nelle strade delle città per prendersela con le forze di polizia, parafulmini e obiettivi delle loro violenze (il che è accaduto, in particolare, con le agitazioni “no vax” e “no pass”). In Piemonte è successo anche con la lotta contro la Tav. E a Roma con certi assalti alle caserme e ai commissariati di polizia.
Accade, poi, sempre più spesso che si pratichino joint-venture criminali tra tifoserie diverse unite, per esempio, contro i napoletani. A Genova, domenica scorsa: doriani, baresi, ternani e veronesi. Tutto questo ha poco a che spartire con il tifo. I violenti di professione non rappresentano né il popolo che va allo stadio né le società calcistiche. Peraltro colluse, per paura, con questi gruppi fino a ieri. Oggi alcune società sono in prima linea per arginare questo fenomeno, altre, seppur silenti, hanno rotto le coperture e i legami indicibili con i clan criminali.