L’arresto dell’ex presidente Pedro Castillo, con l’accusa di aver tentato un autogolpe il 7 dicembre, e l’inizio del governo di Dina Boluarte sono gli antefatti che hanno scatenato le manifestazioni che stanno sconvolgendo il Perù e hanno causato numerose vittime. Dopo la pausa del periodo natalizio, quando le manifestazioni erano cessate, la protesta contro il governo di Dina Boluarte è ripresa e ha coinvolto tutto il Sud del Paese. È la spia della profonda crisi politica che sta vivendo la nazione andina, e che ha visto avvicendarsi – dal novembre del 2000, quando Alberto Fujimori si dimise via fax dal Giappone di fronte alle prove di corruzione e violazione dei diritti umani – ben dieci presidenti. Di questi, solo Ollanta Humala, ha potuto portare a termine il mandato di cinque anni. Quanto agli altri, uno è stato in carica solo cinque giorni, sei sono finiti sotto processo e, tra questi, cinque sono finiti in carcere, uno si è suicidato per evitare l’arresto, un altro si è dimesso per evitare di essere destituito, un altro ancora è stato licenziato dal Congresso.
Il penultimo, Pedro Castillo, ha tentato un autogolpe per evitare di essere mandato a casa per “incapacità morale”. Ma, avendo fatto i conti senza l‘oste, ovvero non avendo prima verificato di poter contare sul sostegno dei militari, è stato preso in contropiede dal Congresso, che l’ha destituito. Avendo ordinato al suo autista di dirigersi alla volta dell’ambasciata messicana, che lo aspettava per dargli asilo politico, è stato arrestato dalla sua stessa scorta. Questo l’epilogo di una lunga storia. Che sembrerebbe una trama di fantapolitica, ed è invece la succinta ricostruzione di ciò che è accaduto in poco più di vent’anni nel Paese del condor.
L’attuale presidente Dina Boluarte, che di Castillo era la vice, si trova ad affrontare la peggiore crisi politica da vari anni a questa parte. Si è mossa chiedendo al Congresso di anticipare le elezioni. Ma ha pensato che fosse sufficiente anticiparle all’aprile del 2024. In tal modo, il presidente eletto e il nuovo parlamento entreranno in funzione solo a luglio, consentendo agli attuali deputati di rimanere al loro posto per altri venti mesi. In Perù non esiste la rielezione del Congresso, come di qualsiasi altra istituzione: il che spiega, in parte, la resistenza dei parlamentari a chiudere il loro mandato in anticipo. Anche se l’83% della popolazione, secondo l’ultimo sondaggio dell’Istituto peruviano di economia, vorrebbe mandarli a casa già entro l’anno in corso.
In questa situazione, gli sforzi di Boluarte si sono rivelati inutili per la generale sollevazione dei sostenitori del presidente deposto, appartenenti alle classi sociali più povere. Travolto da scandali di corruzione e totalmente incapace di mettere in piedi un’agenda di governo, Castillo si è visto costretto a galleggiare nominando cinque diversi esecutivi: e così ha contribuito ad aumentare l’instabilità politica di cui il Paese soffre, a causa della grande frammentazione delle forze presenti in parlamento. Ciononostante, continua ad apparire alle masse di diseredati come l’antitesi politica all’establishment di Lima, segnando la distanza, incolmabile, che separa il mondo campesino dalla società della capitale.
Assumendo la presidenza, Dina Boluarte ha pensato di poter condurre il mondo della politica a superare le divisioni e a fare, per una volta, gli interessi del Paese. Debolissima, probabilmente si prepara per lei un futuro non dissimile da quello di molti suoi predecessori. È ora bersaglio delle critiche per la violenta repressione con cui ha cercato di porre fine alle proteste che hanno portato il Perù sotto i riflettori dell’opinione pubblica internazionale. A tale riguardo, si è mosso perfino il segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres, che si è detto “profondamente colpito”, assicurando che sta “seguendo con preoccupazione” la situazione.
Il salto di qualità che ha condotto alla giornata più tragica dall’inizio delle proteste, è avvenuto lunedì, 9 gennaio, a Juliaca, una città situata a più di milleduecento chilometri a sud di Lima, nella regione di Puno, a poca distanza dalle sponde del lago Titicaca. Qui i manifestanti hanno cercato di occupare l’aeroporto controllato dalle forze di polizia e dall’esercito. Nel corso degli scontri, hanno perso la vita diciassette civili e un poliziotto. Secondo il coordinatore delle procure contro il crimine organizzato, Jorge Chávez Cotrina, i diciassette cittadini di Juliaca sono stati uccisi da proiettili di armi da fuoco. Ieri il difensore civico ha annunciato che è deceduto anche un ragazzo di sedici anni, ferito lunedì da un proiettile. Poche ore prima, settantuno dei centotrenta membri del parlamento hanno votato la nascita di una commissione incaricata di indagare sulle morti causate dalla violenza della polizia nelle ultime settimane contro le manifestazioni che si oppongono al governo Boluarte. L’iniziativa ha avuto il sostegno dei partiti di opposizione al presidente, e ha l’obiettivo di accertare l’esistenza di responsabilità politiche e penali.
Hanno votato contro i partiti più conservatori, come il fujimorista Fuerza popular, Alianza para el progreso, Renovación popular e Avanza País, le formazioni che sostengono Boluarte. I giornali locali raccontano di una Juliaca immersa in una “calma tesa”, con gruppi di cittadini che si preparano per le esequie delle vittime. In strada si sono formati picchetti, ma non sono segnalati nuovi incidenti con le forze di sicurezza. Se il numero delle vittime civili ha raggiunto una cifra spaventosa, la violenza non ha risparmiato settantacinque agenti di polizia rimasti feriti spesso in episodi di estrema brutalità. Un agente è stato torturato e poi bruciato vivo a Juliaca, mentre la casa di un membro del Congresso è stata data alle fiamme con la sua famiglia ancora all’interno. Blocchi stradali sono in corso in sei dei ventiquattro dipartimenti del Paese: Apurímac, Cusco, Madre de Dios, Amazonas, Arequipa e Puno, comprendenti quindi aree di interesse turistico.
Quanto accaduto ha costretto il governo a dichiarare, per mercoledì 11 gennaio, un “giorno di lutto nazionale” e a decretare tre giorni di coprifuoco notturno a Puno. La misura è stata annunciata martedì alla plenaria del Congresso dal presidente del Consiglio dei ministri, Alberto Otárola, “per salvaguardia della vita e dell’integrità, della libertà di tutti i cittadini di Puno”. La dichiarazione del primo ministro è avvenuta al termine di una sessione durata varie ore, in cui il parlamento ha votato la fiducia al suo governo. Dopo l’illustrazione del programma, i parlamentari hanno espresso settantatré voti a favore, quarantadue contrari e sei astensioni. Archiviati Pedro Castillo, presidente sostenuto da una formazione di sinistra, e il suo governo, il nuovo premier e la sua compagine governativa appartengono al centrodestra.
Due giorni fa, numerosi manifestanti hanno cercato di prendere l’aeroporto Velasco Astete a Cuzco, meta del turismo internazionale, che in genere percorre tutto el valle sagrado che conduce fino a Machu Picchu. Un tentativo simile era già avvenuto il 7 gennaio. Testimoni dei fatti raccontano che decine di persone hanno marciato per la città e poi hanno cercato di raggiungere lo scalo aereo, sorvegliato da un contingente di polizia che dispone di carri antisommossa. Anche in questa occasione, le forze dell’ordine hanno risposto duramente, e alla fine della giornata è stata confermata la morte per arma da fuoco di un cinquantenne. Le manifestazioni contro la presidente Boluarte, e per la scarcerazione di Pedro Castillo, hanno richiamato centinaia di persone, in gran parte contadini provenienti da località dell’interno, alle capitali delle regioni di Cuzco, Ayacucho, Apurímac, Arequipa e Tacna, quest’ultima al confine con il Cile. Se alle proteste partecipa la parte più povera del Paese, Lima rimane quasi indifferente.
Finora, i manifestanti morti negli scontri con le forze dell’ordine sono quarantuno, mentre sono sette le vittime “per incidente stradale e eventi legati al blocco” delle vie di comunicazione. Con il poliziotto bruciato vivo a Juliaca, la somma dei morti arriva a quarantanove. I manifestanti chiedono le dimissioni della presidente Dina Boluarte, la chiusura del Congresso, la convocazione di un’assemblea costituente e l’anticipo delle elezioni generali al 2023.
Il primo ministro, Alberto Otárola, ha denunciato che è in corso un “attacco organizzato allo Stato di diritto e alle istituzioni” e un “colpo di Stato”, di cui ha ritenuto responsabili i manifestanti. Otárola ha affermato che gli scontri a Juliaca sono stati “un attacco organizzato, sistematico di vandalismo e di organizzazioni violente contro lo Stato di diritto e le istituzioni” della regione meridionale di Puno. “Come se fossero in uno scenario di guerra, hanno cercato di prendere l’aeroporto” – ha concluso.
Dal canto suo, la procuratrice generale Patricia Benavides ha aperto un’indagine con l’accusa di genocidio, omicidio colposo e lesioni gravi contro Dina Boluarte. Insieme a lei saranno indagati Otárola, il ministro della difesa Jorge Chávez e quello dell’Interno Victor Rojas. In margine all’inchiesta, si è saputo che, nell’assumere il suo incarico, Dina Boluarte ha firmato due contratti, il 20 e 27 dicembre, per rifornirsi di 31.615 cartucce e granate di bombe lacrimogene. Nessun dubbio sulla loro destinazione, alla luce di quanto sta succedendo.
La portavoce dell’alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani, Marta Hurtado, ha affermato che “i funzionari peruviani devono effettuare indagini rapide, imparziali ed efficaci sui morti e sui feriti, chiedendo conto ai responsabili e garantendo alle vittime l’accesso alla giustizia e al risarcimento”. Castillo è attualmente in prigione per scontare una detenzione preventiva di diciotto mesi, e dovrà affrontare un processo per il reato di ribellione, mentre la sua famiglia ha trovato rifugio politico in Messico.
Nei giorni scorsi, le autorità peruviane hanno interdetto l’entrata nel Paese a nove cittadini boliviani, tra cui l’ex presidente Evo Morales, perché minerebbero la sicurezza del Perù. Morales ha sempre sostenuto l’ex presidente peruviano Pedro Castillo, affermando che la destituzione e la sua successiva detenzione sono illegali e incostituzionali. La reazione dell’ex presidente boliviano è stata immediata: è avvenuta mediante una presa di posizione sui suoi social network. Attraverso Twitter, ha denunciato che “ora ci attaccano per distrarre ed eludere le responsabilità per gravi violazioni dei diritti umani dei nostri fratelli peruviani”; e ha aggiunto che i conflitti politici non possono essere risolti con “espulsioni, divieti o repressione”. Già nel novembre 2021, la commissione per gli Affari esteri del Congresso aveva dichiarato Morales persona non grata “per il suo negativo attivismo politico in Perù e la sua evidente interferenza nell’agenda del governo”.
Evo Morales, che ha governato la Bolivia dal 2006 al 2019, ha partecipato attivamente alla politica peruviana, da quando l’ex presidente Castillo è salito al potere nel luglio 2021. Dopo la sua destituzione, il 7 dicembre, ha espresso il suo sostegno alle proteste che chiedono la cacciata di Dina Boluarte e, in particolare, a quelle che si svolgono nel dipartimento di Puno, nella regione aymara che confina con la Bolivia. Insomma, “grande è la confusione sotto il cielo” peruviano, ma la situazione è pessima.