Una piazza piena, quella raccolta a Roma attorno al feretro di Ratzinger, densa e commossa, ma anche rivendicativa: una comunità per nulla piangente e rassegnata, che non congeda il proprio papa ma vuole usarlo. Che piazza era quella? Con il cuore spezzato, come ha detto, non senza malizia, il segretario particolare del papa emerito, Georg Gänswein, commentando oggi la sua reazione nei confronti della decisione di Francesco di regolamentare e limitare l’uso della celebrazione della messa in latino. Più di un aneddoto, una vera e propria dichiarazione di guerra al corso del papa in carica. Dunque una piazza conservatrice se non proprio reazionaria?
Certamente una piazza non conciliarista, per nulla in sintonia, ancora dopo sessant’anni, con il messaggio di quella straordinaria apertura capace di sintonizzare la Chiesa con il mondo. Non poche erano le scarpette rosse che ecclesiastici o semplici fedeli hanno esibito per manifestare la propria adesione a quello che riconosce come univoco messaggio del papa tedesco, che usando quelle scarpette simboleggiava il sacrificio, fino al sangue, per la propria fede. È questo oggi il segnale che sale da San Pietro. E non si tratta più di una testimonianza muta o implicita, o indiretta, ma di una parola ad alta voce. Anche perché – ed è la novità che interroga tutti noi – dal Concilio Vaticano II, in cui la Chiesa inseguiva un mondo che si era messo a correre – e che di lì a qualche anno avrebbe vissuto l’esperienza di un Sessantotto anche ecclesiale, con le diverse pratiche di dottrine della liberazione – il mondo contemporaneo, con la stessa foga, marcia in una direzione del tutto opposta.
Paradossalmente, tocca ai conservatori chiedere alla curia romana di connettersi con le istanze secolari e aprire le porte alla domanda del mondo, come anticipò il vero predecessore di Ratzinger, papa Wojtyla. Un mondo in cui appare predominante un popolo populista e revanscista, che rovescia le conquiste del Novecento in nome di un istinto proprietario e individualista, e che proprio per questa sua vocazione ha bisogno di una fede che lo assolva e giustifichi.
Le inquadrature sull’affollata tribuna delle autorità, dove non si riconosceva nessun rappresentante che non fosse parte di una destra vincente e totalizzante, non lasciano dubbi su chi sia oggi in campo. La fede esibita è forse il tratto distintivo della folla di piazza San Pietro. Una fede che non vuole essere solo testimonianza ma anche azione. Una fede che riconosce, persino a dispetto della sua esplicita volontà, il papa scomparso come tutore e propugnatore di valori non negoziabili, quelli che della dottrina cattolica Ratzinger asseverò durante il suo pontificato.
Questi valori – difesa della vita come strumento per ricondurre ogni conquista di liberazione degli individui, soprattutto delle donne, in un alveo di rigorosa disciplina teologica – sono oggi il cemento trasversale che, dal trumpismo alle destre caudilliste sudamericane, si incontrano con i movimenti simil-fascisti europei: in Francia, Spagna, Germania e, con l’evidenza del suo governo, in Italia. La premier Meloni non ha atteso che si concludessero i riti spirituali attorno al feretro di Ratzinger per lanciare l’offensiva, prendendone in ostaggio la memoria, proclamando aperta la costituente di una forza nazionale e conservatrice, un partito della nazione nella concezione più autocratica possibile, che si propone di raccogliere il popolo di quella piazza.
Certo, rimangono varie, ricche e diversificate le esperienze e le testimonianze in contrasto con questa visione oscura. Ancora consistente è la traccia conciliare sia nel mondo ricco, dalla Germania agli Usa, sia nei mondi più poveri, serbatoio di vocazioni di massa, come l’Africa e l’Asia. Esperienze che guardano a papa Francesco come a una speranza di bonifica dei meandri vaticani, e di apertura su snodi essenziali, come il sacerdozio della donna e il vincolo di castità del clero. Ma il tratto sociale, l’aria che soffia fuori dai portoni di bronzo, come si diceva una volta, è un’altra: quella che risuonava nella piazza attraverso il coro che reclamava Ratzinger “santo subito”.
Una tendenza che appare evidente nel silenzio, attonito, e quasi estraneo con cui la cultura di sinistra, in tutte le sue accezioni e latitudini, ha seguito gli eventi vaticani. Nessuno ha avuto l’ardire di intervenire, di interagire con questo moto. Nessuna dichiarazione, nessun commento. Silenzio tombale dal chiacchiericcio aneddotico che caratterizza il dibattito congressuale del Pd, partito in cui la componente cattolica – di più, la matrice conciliare – sarebbe componente costitutiva di un’identità. E niente di più dalle sinistre che si dichiarano radicali, da pensatori o testimoni di esperienze più identitarie.
Il papa che si è dimesso, giustificando l’estrema decisione con quella frase che rimarrà davvero nella storia – in mundo nostri temporis rapidis mutationibus subiecto et quaestionibus magni ponderis pro vita fidei perturbato –, con la quale ha dato uno straordinario e profetico contributo a un’obiettiva relativizzazione dei poteri, e a un riconoscimento del nostro tempo come tempo di rivisitazione delle verità e dei valori, rovesciando così la stessa eredità storica legata alla visione dei valori non negoziabili, è stato consegnato a una destra virtualmente totalitaria senza colpo ferire. Mentre con quella scelta veniva aperto al mondo un varco imprevedibile e ancora indecifrato.
Quel papa, per lo spessore culturale e teologico che gli si accredita, non può essere infatti considerato come in preda a un banale sconforto nel passaggio più drammatico del suo pontificato, quali le dimissioni con cui rinunciò non a una carica istituzionale, ma all’investitura di vicario di Cristo venutagli direttamente dallo Spirito Santo, non da una congrega di potere locale. La ragione da lui indicata con quell’atto – ossia la dichiarata impotenza nel governo delle “rapide mutazioni” attraversate dal mondo – muta inevitabilmente la stessa percezione che si ha della cattedra di Pietro, e dovrebbe indurre la sinistra a una visione di trasformazione positiva e liberatrice delle cose, a un dialogo con quella disperazione, mediante una riflessione su quell’atto come testimonianza che rende il potere – tutti i poteri – oggetto di una necessaria rivisitazione critica. Qui sta la lotta politica, nell’accezione più alta, attraverso cui la Chiesa – con Costantino, con Carlo Magno, con le crociate –, e il suo contraddittorio confronto con la modernità nel lungo secolo di Giordano Bruno e Galileo, ha influito sul costituirsi della società civile in istituzione politica.
Ma torniamo a un secolo fa, ai terribili anni Venti del Novecento, quando quesiti analoghi si affacciarono, dopo la guerra mondiale in Europa, e la destra prese il sopravvento congiungendo gli interessi di un ceto proprietario e predatorio con quella che Hannah Arendt, nitidamente, definì “l’ansia delle plebi di entrare nella storia anche a costo della propria distruzione”. Allora la sinistra si ritirò nella difesa del socialismo in un solo Stato, lasciando poche casematte a presidiare le società in Occidente. Poi, dopo il secondo conflitto, quelle casematte divennero le retrovie di una possente controffensiva, in cui un soggetto – una classe, anzi la classe generale – imbastì un grande compromesso sociale, mettendo in campo un orizzonte in cui ruoli, funzioni e professioni venivano ri-declinate in un contesto di liberazione collettiva e soddisfazione individuale. Era la stagione dell’egemonia socialista, in cui una grande potenza fungeva da deterrenza per ogni sopraffazione globale, e i reparti più avanzati di un ceto di produttori, capaci di tenere in scacco gli apparati di sviluppo della ricchezza, riuscirono a introdurre spezzoni di socialismo che civilizzarono l’intero secolo.
La Chiesa ne fu investita e reagì con una potente carica umana, sociale e culturale, aprendo le porte al mondo con la certezza che poteva farsi ascoltare oltre che ascoltare. La relazione fra società civile, che metabolizzava valori e insegnamenti cristiani in una suggestione di solidarietà collettive e collettivizzanti, era strettamente coerente con un mondo dominato da masse consapevoli. Preti e sindacalisti (non infrequentemente entrambe le funzioni convivevano) erano i maestri di questa alfabetizzazione civile. Perché questa eredità oggi non parla?
La sinistra non sembra avere più un vocabolario, perché essa si è ossificata negli apparati generati dalla centralità della fabbrica animata da quelle masse, oggi frantumate dal postfordismo, ridisegnate dal consumo e non più dalla produzione. Mentre la Chiesa, che ha dialogato più organicamente con quelle spinte innovative, ne custodisce con vitalità la memoria, facendola rivivere nell’insegnamento ecumenico.
Per questo oggi la furia iconoclasta reazionaria – è il caso di dirlo – si scaglia contro quel bersaglio: normalizzare Francesco per chiudere ogni spazio a un’interpretazione progressista della missione religiosa. In questo conflitto, la sinistra potrebbe ritrovare ragion d’essere e un linguaggio per collegarsi, a sua volta, con quelle moltitudini di nuovi e irrequieti cittadini di comunità contese secondo valori retrivi. L’incalzare dei nuovi poteri tecnologici è forse il terreno su cui ripensare un nuovo incontro.
Nel 1963, a Bergamo, Palmiro Togliatti con un celebre discorso promosse il dialogo con il mondo cattolico, individuando nel pericolo di una guerra nucleare la ragione di convergenza di laici e religiosi in una mobilitazione per la pace. Oggi è la proprietà privata dei poderosi mezzi che si sostituiscono allo Stato, decidono le guerre e riprogrammano la vita umana – come spiega senza indulgenze Craig Venter, uno dei più attrezzati genetisti digitali –, il bersaglio contro cui attivare culture e coscienze per piegare la potenza di calcolo a un’idea di bene comune, che sappia declinare ambiente, inclusione e trasparenza, in una nuova forma di vivibilità consapevole ed egualitaria.
La destra brandisce il Vangelo come una spada per colpire il pensiero libero. La sinistra deve cogliere in quel messaggio un linguaggio per parlare a chi condivide la propria libertà. Senza remore né timidezze, con la radicalità di chi crede che proprio la libertà di tutti sia l’unico valore non negoziabile.