Suggeriamo un argomento di conversazione ai nostri lettori per le prossime feste, da porre al centro delle cene e dei pranzi “con i propri cari”, come si dice. Quello della questione salariale. Vorremmo che ci fosse una risposta alla seguente domanda: come mai nonostante l’Istat, e un articolo pubblicato da “Le Monde” il 20 dicembre scorso (“Il Paese più toccato dalla caduta del potere di acquisto è l’Italia”), certifichino un crollo dei salari del 10% e oltre in termini reali, dal 2008 a oggi – passando quindi dalla vecchia crisi a quella pandemica più recente, e ora con la ripresa dell’inflazione –, non si è vista e non si vede un’esplosione di collera sociale? Come mai, negli ultimi anni, abbiamo assistito ad agitazioni fascistoidi e poujadiste, come quelle intorno alle chiusure e ai confinamenti imposti dalla pandemia – le stesse che hanno aperto la strada all’affermazione elettorale di Fratelli d’Italia –, e a nessun movimento di rivendicazione salariale? Come mai altrove, per esempio in Inghilterra – dove la drastica perdita di potere di acquisto non è così storicamente connotata, ma risale solo all’ultima fiammata inflazionistica –, siamo dinanzi a un’ondata di scioperi e in Italia, invece, non si muove nulla?
Ricorrendo a strumenti teorici puramente marxiani, questo appare inspiegabile. La “lotta di classe” sarebbe qualcosa di endemico, che può anche inabissarsi per un periodo, ma poi ritorna fuori, anche prepotentemente in modo spontaneo, quando le condizioni di vita di una larga parte della popolazione vanno peggiorando. Ma le cose italiane smentiscono questo assunto. Va notato, anzitutto, che alcuni dati non corrispondono alla realtà. Solo il 26% dei lavoratori italiani dichiara un reddito superiore ai trentamila euro (lordi). Ciò non può essere. Come dicono i qualunquisti di ogni genere, non vedremmo il frenetico turismo che si vede e i ristoranti pieni; ci sarebbe un Paese attraversato in lungo e in largo solo dai torpedoni provenienti dall’estero – il che non è. Dunque, per spiegare la permanenza di un certo grado di benessere che, nonostante tutto, continua a essere diffuso tra gli italiani, bisogna chiamare in causa un fenomeno massicciamente presente, una specie di convitato di pietra: il lavoro nero.
Il “nero”, con l’evasione fiscale che ne deriva, è probabilmente la prima causa del simulacro di benessere che si continua a vedere in Italia. In realtà si guadagna, in media, più di quanto si dichiari. La precarizzazione dei lavori ridotti a “lavoretti”, la mancanza di un salario minimo, fanno il resto. I soldi girano ma non appaiono. Un modo, questo, per garantirsi la pace sociale. La ragione principale per cui le forze politiche ed economiche dominanti vogliono lasciare la situazione del mercato del lavoro così com’è – anzi, peggiorandola pure un po’, riducendo o eliminando quel sussidio di disoccupazione che altri chiama pomposamente “reddito di cittadinanza” – è che i lavoratori e le lavoratrici, soprattutto giovani, sono tenuti meglio alla catena non potendo far valere i propri diritti e dovendo accettare qualsiasi tipo di impiego.
Una seconda causa di rassegnazione di massa ha a che fare con una peculiare “antropologia culturale” (mettiamo le virgolette per indicare, tuttavia, che non si tratta di qualcosa di definitivo, inscritto nel destino della “italianità” in quanto tale, ma di un che di storico, dunque contingente, seppure “precipitato alla maniera di un’antropologia culturale”). È il familismo italiano. Non parliamo di quello “amorale” (su cui si esercitò una famosa ricerca degli anni Cinquanta del Novecento), parliamo proprio di quello “morale”.
In cosa consiste? I nonni e le nonne sono assistiti dai figli e dalle figlie, spesso con l’aiuto di badanti immigrate (anche queste pagate più in nero che in chiaro). A loro volta, le nonne e i nonni fanno da babysitter per le figlie e per i figli, e spesso mantengono questi e i nipoti con le loro, sia pure magre, pensioni. È il welfare familiare. Qualcosa che i giovani del nostro Paese conoscono bene, restando nelle case dei genitori, per mancanza di alternative, molto a lungo. Tutto ciò equivale, una volta di più, a un’economia sommersa. E prima ancora di dire che “l’ascensore sociale si è fermato”, che la scuola non è più (come, almeno in parte, è stata in passato) un momento di promozione dei figli dei meno abbienti, bisognerebbe dire che non c’è più movimento generazionale, cioè che i figli e le figlie non si ribellano ai padri e alle madri.
Insomma, un “Natale alternativo” – che si sarebbe potuto anche trascorrere presso le maestranze in lotta di una fabbrica in crisi, come la Whirlpool di Napoli, cui “terzogiornale” dedicò la foto di fine anno 2021 – potrebbe oggi consistere nel semplice stravolgimento della stereotipata conversazione familiare, in una sorta di presa di parola polemica che, partendo dall’analisi della scarsa effervescenza sociale italiana, la trasformi in un tentativo di autocoscienza.