E no, non era così semplice governare. Nemmeno dichiarandosi “pronti” come da manifesto elettorale di Giorgia Meloni, anche ingraziandosi i numi tutelari dell’ordoliberismo europeista con la scelta dell’ultrà draghiano Giancarlo Giorgetti al ministero strategico dell’economia; nemmeno passando dal blocco navale contro i barconi dei migranti alla richiesta di un maggiore coinvolgimento europeo a difesa dei “confini” meridionali; nemmeno limitando gli interventi “espansivi” nella manovra alla tutela di alcune fasce privilegiate di elettorato tradizionale del centrodestra, per riservare un trattamento ben più severo agli altri meno fortunati (a cominciare dai disoccupati finora affidati al reddito di cittadinanza in via di progressiva abolizione) e alla spesa sociale, come quella su scuola e sanità. Trattamento che riguarderà tutto il Paese con il ritorno in auge, previsto per il 2024, delle regole finanziarie europee più rigide e ideologiche, sospese in occasione della pandemia.
Il passaggio parlamentare sulla legge di bilancio va verso la prevedibile conclusione con il voto di fiducia in aula alla Camera, e poi il passaggio “formale” al Senato, senza modifiche com’è ormai prassi consolidata nel fu bicameralismo paritario che, di fatto, è diventato monocameralismo a corrente alternata: un provvedimento lo esaminano i deputati, il successivo i senatori. E ai parlamentari, per la seconda lettura, non resta che fare chiacchiere a vuoto e spingere il bottone per il voto. Ma per il governo Meloni il passaggio sulla manovra è stato quello nel quale si è rivelata tutta la fragilità di una maggioranza solida numericamente ma politicamente non troppo granitica: la barca ondeggia anche senza vento di tempesta. Del resto, anche nell’altro ramo del parlamento, la fiducia imposta sul decreto “aiuti quater” ha mostrato una certa fatica a gestire unitariamente in maggioranza l’esame dei provvedimenti di spesa.
Per chi segue per mestiere i lavori parlamentari, mugugni e scaricabarile fra alleati non sono certo una novità, ma in genere gli “spifferi” iniziano a comparire dopo un po’, perché i primi mesi di navigazione di un nuovo governo e di una nuova maggioranza godono, di solito, dell’effetto luna di miele e degli accordi di spartizione di poltrone e tematiche politiche fra i partner. C’è voluta quasi una intera settimana di rinvii, emendamenti accantonati per prendere tempo, norme sparite dal testo (clamorosa la marcia indietro imposta da Bruxelles sulla libertà di rifiutare il Pos nei pagamenti sotto i 60 euro), e norme annunciate e mai depositate, come lo scudo penale per i reati fiscali, per arrivare a concludere il lavoro in commissione a Montecitorio sulla legge di bilancio.
Tutto questo senza nemmeno l’ombra di veri tentativi ostruzionistici da parte delle opposizioni. E nel frattempo abbiamo assistito allo spettacolo della riassegnazione alla maggioranza di una quota dei fondi che erano stati messi a disposizione delle opposizioni per emendamenti “mirati”; alla scena del ministro leghista dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, che ha lamentato il troppo “zelo” della Camera (presieduta dal leghista Lorenzo Fontana!) nella gestione degli emendamenti governativi alla manovra; alla sconfessione, da parte di pezzi di maggioranza, del condono penale per gli evasori, caldeggiato dal viceministro di Forza Italia, Francesco Paolo Sisto – “iniziativa personale”, hanno commentato fra gli alleati –; e all’episodio doloroso e lacerante, per l’interessato, della platea della festa di Fratelli d’Italia che rumoreggiava e fischiava contro Silvio Berlusconi, per la lunghezza eccessiva e le eccessive rivendicazioni dei suoi meriti storici nel suo videomessaggio di saluto nella giornata conclusiva.
Tensioni rimangono anche su altri temi: per esempio, nelle rare occasioni di dibattito parlamentare sulla guerra e gli aiuti militari all’Ucraina, i distinguo, soprattutto di parte leghista, non sono mancati anche se, in genere, prudenti e sfumati. Sullo scambio in materia di riforme istituzionali (autonomia regionale differenziata ai leghisti, presidenzialismo a Fratelli d’Italia) ci sono continui batti e ribatti sulla tempistica delle due questioni. Per i leghisti la “secessione dei ricchi” ha una sua corsia preferenziale ordinaria e non può attendere i tempi, necessariamente più dilatati, della modifica costituzionale. Ma per la destra – che storicamente si è vestita del tradizionale centralismo “nazionalista” – questa idea dei due tempi non è facile da digerire e, di tanto in tanto, qualche esponente meloniano ricorda la necessità di viaggiare su binari paralleli. Sarebbe comunque una lettura forzata quella di chi volesse trarre, dalla vistosa zoppia evidenziata dalla maggioranza, nel cammino della legge di bilancio, conseguenze politiche prevedibili a breve termine. I numeri parlamentari consentono di tagliare corto con un voto di fiducia, in ogni occasione nella quale i contrasti in maggioranza dovessero diventare difficili da gestire.
Una certa flessibilità corsara dell’opposizione neocentrista di Carlo Calenda e Matteo Renzi garantisce (in teoria, da verificare volta per volta) qualche spazio di manovra a Giorgia Meloni, in caso di conflitti occasionali su singole materie o scelte da votare in parlamento. E il contesto internazionale rimane, per ora, di navigazione senza troppi scossoni per la presidente del Consiglio: allineatissima sulla guerra con Washington, docile agli eventuali aggiustamenti richiesti – come dimostra il caso dei pagamenti con il Pos – nella relazione con le istituzioni europee, tanto che il “suo” ministro per i rapporti con il parlamento, l’ex capogruppo di FdI in Senato, Luca Ciriani, per adesso si può permettere di vantare “un rapporto con Bruxelles positivo e ragionevole”. Per ora la barca, anche se traballante, può contare su un mare relativamente calmo.