Il governo dell’Indonesia, il più popoloso Paese islamico – oltre 275 milioni di abitanti –, cede a tentazioni integraliste che ricordano quelle iraniane. A leggere il provvedimento del presidente Joko Widodo – un liberale islamico moderato – vengono i brividi. Soprattutto se consideriamo che l’enorme arcipelago asiatico ha sempre avuto un approccio laico alla religione. Grazie all’approvazione della nuova legge, la privacy, e in particolare i rapporti sessuali tra due persone non sposate, diventano affare di Stato. Si punta l’indice, ancor più, contro le relazioni tra persone dello stesso sesso le cui unioni sono proibite. È previsto il carcere per chi si macchia di tali reati. E, come se non bastasse, le coppie non sposate non possono convivere: se lo fanno, vanno incontro a provvedimenti giudiziari. Una sorta di approccio “morale” alla vita delle persone, che ricorda l’omonima polizia iraniana. Viene da sé che ognuno può diventare vittima di qualche delazione, finendo così nel mirino della repressione. Tutto questo è incredibile, se consideriamo la tradizionale laicità del Paese asiatico.
L’Indonesia tollera ben cinque religioni, e fin qui non è mai stato un Paese confessionale. “Molti ma uno” era – è il caso di parlare al passato – il motto del Paese, scrittonella colonna di Monas, visibile nella grande e centrale piazza Merdeka di Giacarta. Una filosofia fatta propria dal capo dello Stato, che invece sembra ormai cedere alle pressioni oscurantiste dell’universo islamico. L’oggetto del contendere è il vecchio codice eredità del colonialismo olandese, nel mirino di chi vuole cancellare ogni traccia del passato, facendo però prevalere il volto peggiore del presente. Sono decenni che questo testo viene messo in discussione. Già nel 2019, era stata redatta una prima bozza, poi ritirata per le proteste, le stesse esplose oggi di fronte a un nuovo testo.
Attore principale di questa deriva, è il ministro della Difesa, l’ex generale Prabowo Subianto, già genero del dittatore Suharto, sostenuto dal Fronte dei difensori dell’islam, che può essere considerato una sorta di polizia morale del Paese. Tutto questo all’interno di una islamizzazione dell’Indonesia, in corso da anni, concretizzatasi con l’adozione di provvedimenti restrittivi in materia di abbigliamento femminile, consumo di alcolici, gioco d’azzardo e prostituzione. Viene così da sorridere a sapere che la nuova bozza, modificata dall’ala più laica del governo, è più tollerante nei confronti degli eventuali colpevoli, perché per avviare un procedimento penale serve almeno una denuncia del coniuge, dei genitori o dei figli. C’è di più. Le norme repressive valgono anche per i milioni di turisti che ogni anno affollano soprattutto l’isola di Bali. Insomma, basta che un turista o una turista abbia una relazione più o meno occasionale con un o una locale per rischiare il carcere, diventando così facile preda di ricattatori e affini. È evidente che, di fronte a questo raccapricciante scenario, chiunque rifletterà più di una volta prima di recarsi in un luogo dove una vacanza rischia di tramutarsi in un incubo. La protesta degli operatori turistici non si è fatta attendere. La Camera di commercio indonesiana ha ammonito sui gravi rischi che corre l’immagine di un Paese tradizionalmente accogliente. Potrebbero essere scoraggiati anche eventuali investimenti economici. Uno Stato autoritario: ecco cosa rischia di diventare l’Indonesia, che introduce inoltre la pena di tre anni di carcere per chiunque “attacchi la dignità” del presidente o del vicepresidente.
Brutta aria, dunque, confermata anche dal recente vertice dei G20, ospitato a Bali lo scorso novembre. Sono state vietate o represse pacifiche manifestazioni ambientaliste. “All’inizio di novembre – denuncia Amnesty International – alcuni attivisti di Greenpeace, che si stavano recando in bicicletta a Bali per presentare la loro campagna contro il cambiamento climatico, sono stati intimiditi e costretti a firmare una dichiarazione contenente l’impegno a interrompere le loro attività durante il G20. Inoltre – aggiunge l’organizzazione umanitaria – le forze di sicurezza di Bali hanno sciolto una riunione del Legal Aid Institute, citando una norma che limita gli eventi pubblici in occasione del G20”.
Queste limitazioni delle libertà politiche, in atto ormai da circa tre anni, fanno il paio con il giro di vite contro quelle personali. Sempre secondo Amnesty, dal gennaio 2019 al maggio 2022, sono stati registrati 328 attacchi fisici e digitali contro 834 attiviste e attivisti della società civile. Sulla maggior parte di questi attacchi, non è stata svolta alcuna indagine. Per criminalizzare il dissenso, non manca una legge sulle informazioni e sulle transazioni elettroniche, utilizzata anche in questo caso per imbavagliare l’opposizione. Sempre nello stesso lasso di tempo – 2019-22 – sono state perseguitate 316 persone per le loro opinioni. La deriva autoritaria ha coinciso con l’arrivo della pandemia, e dunque con le difficoltà economiche che avrebbero dovuto impegnare l’esecutivo sul fronte degli incentivi anziché su quello della repressione.
Secondo dati del 2020, la crescita economica delle cosiddette “tigri del Sud-est asiatico” è stata bruscamente stoppata dalla pandemia, con un Pil drasticamente calato del 2%. A fronte di una politica di contrasto al virus assolutamente inefficiente, in Indonesia la disoccupazione ha raggiunto il 7% della popolazione in età lavorativa, e sono stati registrati quindicimila casi per milione di abitanti contro i cinquemila del Vietnam. Ovviamente, non è andata meglio sul fronte delle vaccinazioni con solo il 13,4% di vaccinati contro, per esempio, il 48,9 della vicinissima Malesia.
Lo scorso anno è invece cominciato all’insegna dell’ottimismo. Il Pil è aumentato di un considerevole 7%, che si è poi assestato intorno al 4. “A giocare un ruolo trainante in questa decisa inversione di tendenza – dice Andrea Passeri, professore a contratto presso l’Università di Bologna, dove insegna nel corso ‘Democrazie e autoritarismi in Asia’ – è stato il settore delle esportazioni di beni manifatturieri e materie prime, le quali hanno storicamente incarnato un asset cruciale per lo sviluppo economico dell’Indonesia. Durante il primo semestre del 2021, i flussi di esportazione di Giakarta sono lievitati, infatti, del 33% rispetto al 2020, anche grazie al recente aumento del prezzo del carbone”. Paese incredibile e con mille contraddizioni, l’Indonesia si contraddistingue per avere uno dei sistemi di welfare più avanzati del mondo.
In un articolo pubblicato su “il manifesto”, Guido Corradi – già docente di cultura malese-indonesiana presso l’Isiao (Istituto studi Africa e Oriente), da anni collaboratore a Milano con l’Università Bicocca – ed Emanuele Giordana – asiatista e direttore del portale “atlanteguerre.it” – ricordano come il piano si guadagnò il plauso del settimanale britannico “Economist”: “Obama – ha scritto la testata – ci ha messo 472 giorni per trasformare in legge il suo health-care. Joko Widodo ha impiegato solo due settimane per onorare le promesse in tema di sanità e istruzione”.
Corradi e Giordana ricordano anche che “l’assicurazione sanitaria nazionale (Jaminan Kesehatan Nasional-Jkn) gestita dal Badan Penyelenggara Jaminan Sosial (Bpjs) è tra le più estese del mondo e copre circa l’84% della popolazione. È stata progettata per far accedere soprattutto i bassi redditi ai servizi sanitari: per i poveri, il premio assicurativo è interamente pagato dallo Stato, mentre i dipendenti privati dividono il premio tra loro e i datori di lavoro”. Un vero e proprio sogno asiatico in un Paese dove l’aspettativa di vita media è di oltre settant’anni. Ancora più incomprensibile, dunque, come l’irrazionalità e il fanatismo religioso possano arrivare a minare l’equilibrio di un Paese, con alle spalle un passato drammatico e sanguinoso dal quale si stava affrancando con ottimi risultati.