Cessato lo strepito, è forse ora possibile qualche considerazione più strettamente politica sull’evento di Ischia – ed è da preferire il termine “evento” ad altre formule più retoriche e culturalmente connotate, come “tragedia” o “disastro”, che rimandano inevitabilmente a una sorta di fatalismo arcaicizzante. Anche per il crollo del ponte Morandi a Genova la denominazione di rito, ormai comunemente reiterata, è “tragedia”, rimuovendo così completamente le responsabilità umane. Nel Paese delle frane e dei terremoti, parliamo di un evento, dunque, in cui convergono tre diversi piani, strettamente intrecciati. Il primo è certo quello della fragilità dell’isola, nota da sempre (in questi giorni è stato ricordato dalla stampa che ne fece le spese lo stesso Benedetto Croce, ma i segnali d’allarme sono stati insistenti e ricorrenti negli ultimi anni, intensificandosi a partire dal 2006). Un territorio che però è stato soggetto a trasformazioni tutt’altro che “naturali”. Di qui l’importanza del secondo piano, quello dell’attività umana: scomparsa di antiche strutture di contenimento, moltiplicarsi di cave, infittirsi delle costruzioni, esplosione dell’abusivismo, enorme concentrazione di edifici in un’area piccolissima, in buona parte da ricondursi alle seduzioni del facile guadagno col turismo. Terzo piano che ha concorso a determinare l’evento, ed è in fondo il più importante: quello istituzionale.
La strategia dei condoni ripetuti, l’abusivismo come sorta di vizio nazionale, in qualche modo “tollerabile”, ne sono una componente non trascurabile. Ancora ieri il ministro per la Protezione civile, Nello Musumeci, con singolare intempestività, in una intervista sottilizzava sull’esistenza di “diversi livelli di abusivismo”, i cui aspetti meno eclatanti sarebbero “accettabili”, dando così voce a un raramente palesato comune sentire della politica. È probabilmente ciò che prova a balbettare il sindaco di Ischia, quando si agita sostenendo che non ci sarebbe stato abusivismo sull’isola; in realtà, vuole dire un’altra cosa, che non può dire a chiare lettere: “così fan tutti”, tutti si arrangiano, si allargano, autocostruiscono, da decenni c’è un “partito dell’abusivismo e del condono”, del tutto trasversale, come ha ricostruito dettagliatamente Paolo Barbieri (vedi qui).
Il problema non è solo che non si riesce a impedire di costruire, ma che in fondo nemmeno lo si vuole, salvo stracciarsi le vesti post festum quando avvengono guai. Non si riescono a governare gli spazi, i territori. Su Ischia si riversano flussi turistici enormi, circa un terzo del turismo campano; eppure non si è vista neppure l’ombra di un’attenzione istituzionale all’altezza dei problemi che questi flussi sollevano. Quando si interviene, lo si fa in maniera paradossale, come con la recente proposta di delocalizzare una parte delle costruzioni dell’isola, offrendo la possibilità di ricostruire altrove con maggiori cubature: un rimedio peggiore del male.
Anche perché non si capisce chi dovrebbe intervenire: se il ministro sollecita la galera per i sindaci che non fanno rispettare le norme, gli andrebbe ricordato che il carcere per chi fa i condoni non lo si dà, a meno che non si processino anche i ministri che riducono i trasferimenti economici dal centro, incentivando così i sindaci a eccedere nel rilasciare permessi di costruzione per fare cassa con gli oneri di urbanizzazione. Ma bisognerebbe pensare anche alle responsabilità della politica nel continuo rinvio della riforma del catasto (vedi qui), che attende da decenni, e farebbe emergere circa un milione di alloggi abusivi nel Paese, secondo le stime più ottimistiche, e per questo viene rinviata, col pretesto che si tradurrebbe in un aggravio della tassazione.
Rimane non chiaro quali siano le autorità che dovrebbero esercitare il controllo che ora, dopo la “tragedia”, tutti sembrano invocare. Come possono esercitarlo e con quali mezzi i sindaci di piccoli comuni, il cui destino dipende dal favore elettorale e dalle relazioni che hanno sui territori, che dovrebbero governare con mezzi ridottissimi e apparati amministrativi ridotti all’osso. Sindaci che sono spesso re travicelli, appesi a vicende politiche nazionali più grandi di loro. Non a caso, uno studioso della pubblica amministrazione italiana del calibro di Sabino Cassese, che da anni denuncia i guasti provocati dall’eccesso di decentramento, intervistato su Ischia e più in generale sulla possibilità di esercitare realmente l’auspicato controllo sui territori “fragili”, anche alla luce del cambiamento climatico, ha dichiarato: “Prepariamoci al peggio”.
Una debolezza politica e istituzionale che rischia, dunque, di diventare drammatica, nel momento in cui il Paese appare sempre più piegato a interessi turistici, con luoghi in cui la pressione esercitata dalle grandi piattaforme dell’affitto temporaneo rischia di trasformarsi in rischiosa monocoltura, provocando una desertificazione degli spazi, con economie locali ridotte alla ospitalità e alla ristorazione, dimenticando, tra l’altro, che il settore turistico è in economia quello che attiva minor valore aggiunto per addetto.
Allora, forse, l’evento di Ischia potrebbe essere una sorta di epitome di una più generalizzata condizione di molti altri luoghi analoghi, e al tempo stesso, pur nella sua luttuosità, potrebbe insegnare molto, offrendo alla politica un’opportunità per ripensare tutti questi aspetti, senza indugiare sulle retoriche della “tragedia”, e senza piangere lacrime di coccodrillo. Sempre sperando che qualcuno finalmente raccolga le istanze che ne emergono, e non debbano profilarsi, dopo Ischia, altre “terre del rimorso” a venire.