Pablo Milanés è morto nelle prime ore del 22 novembre in un ospedale di Madrid, città in cui si era stabilito dalla fine del 2017, per curare la malattia ematologica da cui era affetto. La settimana scorsa era stato ricoverato per una serie di infezioni che, negli ultimi tre mesi, avevano ulteriormente compromesso il suo stato di salute, finché nelle ultime ore la situazione è peggiorata fino a provocarne il decesso. A darne notizia, il suo staff con un post su Facebook: “Con grande dolore e tristezza, comunichiamo che il maestro Pablo Milanés è morto questa mattina presto del 22 novembre a Madrid. Ringraziamo profondamente per tutte le manifestazioni di affetto e sostegno, a tutta la sua famiglia e ai suoi amici, in questi momenti difficili. Che riposi nell’amore e nella pace che ha sempre trasmesso. Rimarrà eternamente nella nostra memoria”. Precedentemente, Pablo aveva dovuto cancellare i concerti che aveva in programma a Città del Messico il 30 novembre, e nella Repubblica dominicana il 5 dicembre. Mentre solo qualche giorno fa, diversi artisti, molti dei quali cubani che risiedono nell’isola e altri della diaspora, si erano uniti per auspicare il suo recupero quando era giunta la notizia del ricovero in ospedale.
Milanés era nato nel 1943 a Bayamo, una città della provincia di Granma, e aveva studiato musica al conservatorio dell’Avana. Con lui scompare una delle voci più note della musica cubana, uno dei fondatori della Nueva Trova, insieme con altri artisti come Silvio Rodríguez e Noel Nicola. Autore di classici come Yolanda e Yo no te pido, nel corso della sua carriera ha pubblicato più di quaranta dischi, e ha vinto, tra gli altri, il Premio nazionale di musica di Cuba e il Grammy latino per l’eccellenza musicale. Lo scorso gennaio era stato duramente colpito dalla perdita della figlia maggiore, la cantante e produttrice musicale Suylén Milanés, morta a causa di un ictus. In cinquant’anni di attività, aveva fatto uscire dall’oblio vecchi artisti che erano stati dimenticati, come Compay Segundo del Buena vista social club, e nel suo Paese aveva gettato un ponte tra generazioni e stili, raggiungendo una fama internazionale come uno dei maggiori cantautori in lingua spagnola. Per decenni e per varie generazioni, la sua voce ci ha accompagnato nei momenti migliori delle nostre esistenze a ogni latitudine.
Pablo ha saputo dare corpo ai sentimenti più intimi componendo struggenti canzoni d’amore, come appunto Yolanda. Probabilmente il più bell’inno che mai sia stato composto per una donna. Raggiungendo la poesia pura con i versi di Yo no te pido (“Yo no te pido que me bajes / una estrella azul / sólo te pido que mi espacio / llenes con tu luz”). Nel suo lungo cammino, Milanés ha cantato i popoli dell’America latina, Salvador Allende, il Nicaragua, Portorico, fino al Vietnam e a Nelson Mandela. Con Yo pisaré las calles nuevamente, scritta il 14 settembre 1973, tre giorni dopo il golpe di Pinochet, Milanés aveva pianto “Santiago insanguinata”, cui aveva dedicato un inno democratico attraverso il quale ha saputo esprimere il dolore di milioni di persone per quanto stava accadendo in Cile. Del mandante di quel colpo di Stato, aveva avuto modo di dire che “gli Stati Uniti sono il padrone assoluto del mondo, è il primo terrorista organizzato attraverso lo Stato”.
Da quei popoli, che nella sua parabola artistica ha spesso cantato, Pablo è stato riamato per la sua coerenza indefettibile, per l’intransigenza con cui ha difeso i più deboli fino agli ultimi giorni della sua vita, e per la lealtà con cui ha intessuto il suo rapporto con la rivoluzione cubana, senza mai alcuna piaggeria, e alla quale non ha mai nascosto le sue critiche (“No vivo en una sociedad perfecta / Yo pido que no se le dé ese nombre”). Dapprima partecipando con calore al processo rivoluzionario, nella speranza di correggerne le storture, per poi giungere all’amara consapevolezza del suo fallimento. “Nel 1992 – ha dichiarato nel luglio dello scorso anno – ho avuto la convinzione che il sistema cubano aveva definitivamente fallito e l’ho denunciato”. Mentre già da molto tempo aveva evidenziato “le ingiustizie e gli errori nella politica e nel governo” di Cuba.
Le manifestazioni erano scoppiate nell’isola l’11 luglio 2021, sostenute soprattutto dall’esilio cubano in Florida, che chiedeva a gran voce al presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, di inasprire le sanzioni contro il regime. Al grido di “libertà”, migliaia di cubani avevano allora protestato in più di quaranta città del Paese, nel mezzo della peggiore crisi economica degli ultimi decenni e di un forte aumento dei contagi e delle morti per Covid-19. Da allora il regime ha reagito con la repressione, ma non è riuscito ad avere ragione di una protesta che ancora serpeggia, adesso anche a causa dei frequenti blackout di corrente elettrica, diventati numerosissimi dopo il passaggio dell’uragano Ian.
Già in Spagna per seguire il trattamento anti-tumorale, senza mai nominare direttamente le manifestazioni, aveva confermato la sua speranza nelle nuove generazioni. “Credo nei giovani, che con l’aiuto di tutti i cubani, devono essere e saranno il motore del cambiamento”. Fiducioso che i cubani riusciranno a trovare “il miglior sistema possibile di convivenza e prosperità, con piene libertà, senza repressione e senza fame”. E l’anno scorso aveva definito “irresponsabile e assurdo incolpare e reprimere un popolo che si è sacrificato e ha dato tutto per decenni per sostenere un regime che alla fine ciò che fa è imprigionarlo”. Un’accusa tremenda per un uomo che ha sempre militato a sinistra.
Poco prima di lui, Silvio Rodríguez aveva fatto un appello per la liberazione dei detenuti che “non erano violenti”, per spingere a un maggiore dialogo e per “meno pregiudizi, meno voglia di colpire e più desiderio di risolvere la montagna di questioni economiche e politiche in sospeso”. Con la sua presa di posizione pubblica, Silvio ha affermato di provare dolore per il fatto che le nuove generazioni non si sentono parte del processo rivoluzionario “ma di qualcosa di diverso”. Quel qualcosa al quale il regime, con le sue chiusure, non sa e non può dare risposta.
Anche lo scrittore Leonardo Padura Fuentes era intervenuto nella grave crisi cubana, spiegando che l’esplosione sociale era “un grido di disperazione” – a cui le autorità devono dare “una risposta non solo materiale ma anche politica”. Mentre un altro grande della cultura dell’isola, il pianista e compositore, Jesús “Chucho” Valdés, attraverso il suo account Facebook, aveva fatto sapere che “mi rende molto triste quello che sta soffrendo il mio popolo, compresa la mia famiglia, fa molto male vedere le condizioni subumane in cui molti cubani vivono”.
Il presidente Miguel Díaz–Canel – in visita in Russia da Putin, di cui Cuba è grande alleata – ha espresso stamattina il suo dolore attraverso il suo account Twitter. “Scompare uno dei nostri maggiori musicisti. Voce inseparabile della colonna sonora della nostra generazione. Le mie condoglianze alla sua vedova e ai figli, a Cuba”. Difficile non essere d’accordo con il presidente cubano, almeno in questa occasione.
Se Carlos Puebla è stato il cantore dell’epopea rivoluzionaria – alla quale ha lasciato capolavori assoluti, uno tra tutti la sua Hasta siempre, scritta dopo che Fidel aveva annunciato la morte del Che in Bolivia –, Pablo Milanés ha interpretato per lungo tempo la coscienza critica del processo rivoluzionario, fino a quando non ha definitivamente preso le distanze da quanto stava accadendo nel suo Paese, senza perdere, tuttavia, la speranza. Con lui la Cuba dolente, la Cuba che soffre e cerca una via d’uscita, la Cuba che ama e riafferma la sua voglia di vivere, oggi è più sola. Hasta siempre Pablito!