Come scrive Rino Genovese su “terzogiornale” (vedi qui), è divenuto difficile definire oggi cosa sia una classe sociale e la propria appartenenza ad essa; di conseguenza, è altrettanto difficile rappresentare al cinema o in letteratura i conflitti sociali, che invece, indipendentemente dalla loro catalogazione in termini classisti, esistono e sono dirompenti. Qualcuno ancora tenta di raffigurarli in termini realisti, come Ken Loach o i fratelli Dardenne, con esiti non sempre felici: perché spesso si cade nella tentazione di sostituire il soggetto positivo assente – il partito che non c’è e, insomma, il sole dell’avvenire – con un sovrappiù di moralismo e di retorica, in cui la disgregazione reale viene stemperata, diluita, consolata. Ma questo non è mai un bene: si resta nel registro dell’immaginario, che tende a divenire quasi inevitabilmente una composizione spettacolare di ciò che è effettivamente intollerabile; mentre solo esponendo in tutta la sua acuità l’asprezza della servitù volontaria a cui sono sottoposti gli oppressi oggi, si può sperare di ridestare un desiderio di rivolta.
La difficoltà di rappresentare col cinema e la letteratura il carattere astratto del capitalismo attuale è connessa all’ovvia difficoltà di restituire in termini sensibili i suoi processi invisibili. Un “derivato” è assai più complesso da comprendere della prova ontologica dell’esistenza di Dio. In ogni caso, l’astrazione non si può rappresentare ricorrendo agli stilemi classici della narrazione cinematografica di “genere” o agli archetipi del romanzo psicologico del Novecento. Come già aveva intuito Adorno: “È proprio l’astrattezza essenziale di tutto ciò che accade in realtà, che si rifiuta assolutamente all’immagine estetica”. Se poi l’estrema complessità del fenomeno viene ridotta al plot di un film di azione, in cui gli eventi vengono spiegati nella loro apparenza superficiale, come colpi di mano di truffatori e gangster di pochi scrupoli, è proprio il cuore dello sfruttamento attuale della vita che rimane assente: “L’illustrazione del tardo capitalismo con immagini tratte dal mondo agrario o criminale non distilla nella sua purezza l’inessenza della società attuale dalla complessità dei fenomeni in cui si traveste” (Adorno).
D’altra parte, neanche il ricorso alla psicologia – che so: mostrare l’anima tormentata e colpevole di un banchiere mentre è costretto a frodare i suoi clienti, o l’imprenditore fallito che si suicida per la vergogna di fronte ai suoi figli – è sufficiente a esprimere il carattere coatto e generale dell’astrazione dalla vita; il rischio è di ridurre a casi particolari quanto è dedotto in modo implacabile dalla logica totalitaria della mistica del danaro: “Ma la falsificazione subita dall’oggetto attraverso questo lavoro di traduzione non è inferiore a quella che subisce una guerra di religione quando viene dedotta dalle pene d’amore d’una regina” (ancora Adorno). Col magari generoso intento di dare un volto umano alla crisi, si sposta tutto l’accento sul dramma di una soggettività colpita; ma si espunge proprio il reale che ha condotto la soggettività fino a quel punto. Così la si falsifica, nonostante le buone intenzioni.
Per questa ragione alcuni registi – i pochi che ancora vogliono parlare di conflitto sociale o addirittura di lotta di classe – aggirano il problema e ricorrono all’allegoria. Naturalmente ci sono grandi esempi di questa modalità nella storia del cinema, primo fra tutti quel Metropolis di Fritz Lang, in cui gli operai si trovano nelle tetre officine sotterranee, mentre i signori se la godono nei piani alti dei grattacieli; in questi casi l’articolazione dello spazio visualizza allegoricamente quel conflitto sociale che non si riesce più a rappresentare direttamente in termini di soggettività consapevoli. L’astrazione di questo tipo di rappresentazione corrisponde, del resto, al dato reale di quella progressivamente sempre più dominante del capitale; non si tratta dunque di una scelta arbitraria ma in qualche modo dovuta alla mimesi del suo oggetto. Su questa via si sono messi Lars von Trier con Dogville (2003), Cronenberg con Cosmopolis (2012), Bong Joon-ho con Parasite (2019).
Il recente Triangle of Sadness (2022) di Ruben Östlund non è all’altezza di questi precedenti (a causa soprattutto dell’ultimo terzo del film: la situazione dei naufraghi sull’isola deserta non brilla per originalità), ed è tuttavia interessante. Qui la struttura spaziale del conflitto è incarnata in una nave: sopra, sul ponte e nelle cabine di lusso, se la spassano oligarchi russi, fabbricanti americani di armi, personaggi della società dello spettacolo; sotto, ci stanno i servi per lo più immigrati e gli operai di sala macchine. Due mondi incomunicabili, che ricordano quelli di una celebre poesia di Hofmannsthal: “Taluni certamente debbono morire là sotto / Dove strisciano i pesanti remi delle navi, / Altri hanno il loro posto presso il timone, là in alto, / Conoscono il volo degli uccelli e i paesi delle stelle…”
Il film sembra a tratti una parodia, credo consapevole, di un celebre prodotto dell’industria spettacolare hollywoodiana: il Titanic, con la sua melensa storia di amore e morte tra i due protagonisti appartenenti per l’appunto a classi sociali incomunicanti e che – nel generale disastro – si amano e superano la loro separazione sociale. L’eroe povero può ben ispirare l’amore di una ricca ereditiera, soprattutto se è destinato a morire e a non dare suppletivi fastidi.
In Triangle of Sadness, la nave che sbanda nella tempesta – senza pilota, e invasa dal vomito e dalla merda – è una fin troppo ovvia allegoria dell’Occidente, mentre il capitano marxista della nave, e l’oligarca russo neoliberista (divenuto ricco vendendo letame), che discutono ubriachi a suon di citazioni dei classici del marxismo è senza dubbio una delle parti più divertenti del film.
Spettatrice della situazione è una coppia di influencer invitati a far parte della crociera come ospiti non paganti, personaggi di estenuato cinismo, di insondabile superficialità, di sfegatato opportunismo; caratteri emergenti in questa fase della società dello spettacolo, descritti con ironia e, a quanto pare, per la prima volta al cinema. Prologo del film una selezione di “modelli” maschi per una sfilata di moda, a torso nudo, con volto sorridente quando reclamizzano una marca popolare, con volto gelidamente altezzoso quando la marca è di lusso. Il rapporto tra i due componenti della coppia è sordidamente condizionato dal denaro, fino agli spiccioli: non male la lunga conversazione per decidere chi dei due deve pagare la cena. Quasi irresistibile la scena in cui una oligarca russa, in vena di capricci, impone a tutto l’equipaggio dei servi di farsi un bagno in mare con lo scivolo; troppo didascalico, invece, il finale, in cui la pulitrice di cessi filippina, l’unica in grado di pescare pesci nell’isola deserta (in realtà come si scopre alla fine sede di un resort esclusivo), si impadronisce del potere. Metafora un po’ stanca delle rivoluzioni fallite, in cui il servo si tramuta in nuovo padrone.
Nella foto: un fotogramma tratto dal film Triangle of Sadness.