Dunque il presidente della Regione Emilia-Romagna ha varcato il Rubicone. Da Campogalliano, sede del suo circolo Pd, ha lanciato la propria candidatura all’interno di un percorso congressuale che, molto probabilmente, lo vedrà incoronato segretario. Com’è noto, zero speranze che il Pd possa cambiare: il fatto stesso che nessuno dei dirigenti o dei militanti ponga la questione principale – “perché abbiamo buttato a mare, per appiattirci sul governo Draghi, un’alleanza con i 5 Stelle che sembrava strategica? perché abbiamo partecipato alle elezioni senza neppure tentare di sbarrare la strada a una destra, che pure dichiaravamo di ritenere pericolosa?” – la dice lunga sulla inutilità di un congresso che, alla fine, si ridurrà all’ennesimo cambio di segretario. Senza che neppure sia posto il problema del meccanismo perverso delle cosiddette primarie, che servono semplicemente a far vincere chi, in quel momento, ha il favore della maggior parte dei media, oltre che l’appoggio di un certo numero di capicorrente.
Non è neanche vero che per andare al governo si debba arrivare primi alle elezioni: favola di una finta autocritica che gira parecchio negli ambienti Pd, e che Bonaccini ha ripetuto. In una democrazia parlamentare come la nostra, le maggioranze si costruiscono con delle trattative e dei compromessi; l’illusione “maggioritaria” dovrebbe essere tramontata da tempo, visto che il Pd può essere, tutt’al più, il perno di un’alleanza, non un partito che arriva a conquistare la maggioranza da solo. La domanda da porre sarebbe: perché il Pd “renzizzato” non fece da subito, nel 2018 (quando era il secondo partito in parlamento, del resto proprio come ora), un accordo con i grillini, così da evitare un anno di governo qualunquo-leghista come il Conte 1? Perché dare spazio, fin da allora, alla destra? E ancora: dopo un complicato percorso di legislatura, perché finire, con la segreteria Letta, allo stesso punto in cui si era con la segreteria Renzi? Dove starebbe la differenza, in questo gioco dell’oca? Ma rispondere a queste domande significherebbe ammettere che Renzi non è stato un errore fugace del Pd ma un morbo di fondo, che si palesò dapprima nella scalabilità del partito da parte di un avventuriero, e poi perfino in un narcisismo leaderistico (del genere “mi si nota di più se partecipo o se non partecipo?”). Un disastro a cui presero parte i renziani ancora oggi nel partito, e con loro il divo Franceschini, sostenitore di Renzi ai tempi della sua resistibile ascesa.
Bonaccini è un esempio di opportunismo, e perciò ha buone chance di vittoria. Per dirne una, che sembrerebbe un episodio secondario, e racconta invece il personaggio: il 5 novembre scorso, era alla manifestazione per la pace; a un intervistatore che per strada gli chiedeva “lei è favorevole o contrario all’aumento delle spese militari?”, ha risposto “non lo so”, ed è scappato via. Bonaccini, come il Pippo della vecchia canzone, non lo sa. A una manifestazione per la pace non sa se convenga o no che lo Stato spenda di più in armi. C’è da pensare che quel “non lo so” significhi piuttosto: “Sono favorevole, ma non posso dirlo qui perché mi trovo a una manifestazione per la pace”. “Già, e perché ci è venuto, presidente Bonaccini?” “Per farmi pubblicità, è chiaro…”. Siamo molto vicini a una parodia di Crozza. Ma questo è il personaggio.
C’è poi una ragione di fondo per non volere Bonaccini segretario. Lui è a favore dell’autonomia differenziata, magari distinguendosi un po’ dai presidenti leghisti di Lombardia e Veneto, ma è a favore. La compromissione del Pd con i progetti di riforma delle destre (dando per scontata quella dei Calenda e dei Renzi) potrebbe passare proprio da qui: attraverso lo scambio tra una certa autonomia e un mutamento della Costituzione in senso presidenzialista. Bonaccini ce l’ha il physique du rôle per fare il “premier forte”, o addirittura il presidente della Repubblica, eletto direttamente “dal popolo”. Non sappiamo esattamente quanto pesi, ma è certo più alto e meglio piantato di una Giorgia Meloni. Potrebbe venirgli chissà quale libidine del potere da indurlo a scelte distruttive dell’ordinamento parlamentare. Dunque non votatelo.