“Consentitemi di immaginare, dal momento che i fatti sono così difficili a ottenersi, che cosa sarebbe accaduto se Shakespeare avesse avuto una sorella meravigliosamente dotata, chiamata Judith, poniamo”. Virginia Woolf immaginava, in Una stanza tutta per sé (1929), che una sorella dotata di Shakespeare non avesse potuto studiare come il fratello, che fosse fuggita di casa divorata dalla passione per la poesia e il teatro, e fosse poi morta suicida per non aver potuto assecondare il proprio talento e la propria passione. Sappiamo che Virginia Woolf aveva ragione a tracciare un quadro fosco delle possibilità offerte alle donne di esprimere e sfruttare i loro talenti artistici, non soltanto nel Sedicesimo e Diciassettesimo secolo.
Non è raro, fin dalla scuola dell’infanzia, notare l’esuberanza dei bambini e giudicarla come un dato naturale, poiché “caratteristica tipica dei maschi”. Qualcosa di analogo avviene con le bambine, considerate tranquille, “perché femmine”. In questo modo, insegnanti, educatori, educatrici, genitori e genitrici, orientano inconsapevolmente ragazzi e ragazze a comportamenti conformi all’universo sociale. L’ottica di genere, e le culture pedagogiche che essa propone, si applicano agli ambiti disciplinari, all’attenzione ai comportamenti e alle relazioni tra i sessi, ai libri di testo, ancora largamente portatori di immagini e narrazioni stereotipate. Ma continuare con modelli precostituiti fa sì che lo stereotipo getti il seme della diseguaglianza tra uomini e donne in ambiti vitali, e quindi si ostacoli il pieno accesso delle donne alla cittadinanza compiuta. Il linguaggio e i media hanno responsabilità notevoli. Se il linguaggio, anche quello non stereotipato – come afferma Luce Irigaray –, è apparentemente neutro, di fatto maschile, ne deriva l’urgenza per la donna di farsi soggetto nel linguaggio, nella significazione simbolica, nel significare autonomamente l’esperienza femminile.
La scuola può fare molto per riflettere sulla tradizione e aprirsi al cambiamento. Un cambiamento che deve essere innanzitutto attento alla lingua, perché il linguaggio veicola credenze, significati, valori. L’Accademia della Crusca è molto chiara sulla necessità di nominare il femminile. “Ciò che non viene nominato, non esiste”, poiché non ne viene creata una rappresentazione nella nostra mente. Anche i media veicolano uno squilibrio, sia quantitativo sia qualitativo, da cui deriva una distorsione dell’immagine sociale: circa gli stereotipi di genere esiste una confusione fra caratteri biologici e condizionamenti sociali, da cui derivano caratteristiche psicofisiche diverse, e la conseguente gerarchizzazione dei generi.
Patrizia Danieli, nel testo pubblicato nel 2020, Che genere di stereotipi? Pedagogia di genere a scuola. Per una cultura della parità, ci ricorda che “[…] la pedagogia di genere non è una pedagogia dei contenuti, ma un’esperienza che si fa conoscenza attraverso l’incontro e la narrazione. Siamo tutti immersi nella stessa cultura, imbevuti di tradizioni forti con alcuni tratti pregiudiziali. Cambiare l’immaginario si può […]. Interiorizzare l’educazione al genere è prevenire la violenza grazie al pensiero critico, per una crescita più libera e consapevole. Infine, fare educazione al genere, è fare cittadinanza e democrazia”.
Tale angolatura prospettica dovrebbe diventare un elemento costitutivo e non aggiuntivo nella valorizzazione delle singole individualità e delle caratteristiche identitarie dei giovani. L’incontro e la conoscenza dell’alterità è la condizione essenziale per il costituirsi del soggetto. Le identità si formano nelle relazioni, la crescita è un percorso che intreccia autonomia, intimità, dipendenza, riconoscimento dell’altro e di sé nell’altro.
Occorre quindi che culture e pratiche pedagogiche si fondino su questa consapevolezza, sulle conoscenze, sulle esperienze in cui si incrociano le traiettorie di vita individuale con le storie collettive. I saperi e le relazioni divengono educative nel momento in cui sono in grado di consentire quello scarto, quel movimento personale di autonomia, che permette di crescere donna o uomo – o entrambi, come mi faceva notare uno studente alcuni giorni fa –, individualità diverse da ogni altra, ma che (o proprio perché) sanno attingere alle risorse delle differenti culture del femminile e del maschile.
Scrive Maria Zambrano: “La mia autentica condizione, cioè vocazione, è stata quella di essere, non di essere qualcosa, ma quella di pensare, di vedere, di guardare, di avere la pazienza sconfinata, che in me permane, di vivere pensando” (Quasi un’autobiografia, 1997). Questa frase è una buona definizione di ciò che sarebbe educazione; e crediamo che parlare di scuola e genere possa tradursi nella ricerca di significati dell’essere e del divenire, e di come ciò possa diventare pensiero, apprendimento, conoscenza comune e personale, scambio e trasformazione nel tempo.
Il mondo è un insieme plurale di esseri singolari, e forse dovremmo pensare alla coesistenza fra generi diversi come a una mappa complessa di similarità e differenze che si intrecciano, si sostengono e si giustificano reciprocamente. Bisogna ripensare la pluralità dei generi (anche) a partire dall’irruzione dell’altro come diversità, e dalla sfida insita nella sua presenza contaminante che esige il confronto con la diversità. Un confronto denso di pathos, che presuppone la capacità di aprirsi all’incontro, sopportare l’inquietudine del riconoscimento, e accettare l’alterazione della propria identità.