Tempi duri per i sovranismi, che si farebbe meglio a chiamare con il loro vecchio nome di nazionalismi. Possono ben poco: né smarcarsi dall’Europa – da cui i singoli Stati, e soprattutto l’Italia, si attendono i fondi stanziati per reagire alla crisi pandemica –, né coltivare i rapporti con il loro campione Putin, infilatosi in una guerra da cui non riesce a tirarsi fuori. In mancanza di meglio, allora – e un po’ approfittando della generale insipienza di quelli che dovrebbero essere i loro oppositori –, si danno a un esercizio che dura da decenni, quello del revisionismo storico. Fu per primo Renzo De Felice, nella sua ponderosa biografia politica di Mussolini, a riabilitare in una certa misura anche la fase finale del fascismo, quella di Salò, che non gli apparve come puro e semplice collaborazionismo filonazista, ma come un modo di attutire i danni dell’occupazione tedesca in Italia.
Il concetto di “totalitarismo”, poi – da declinare effettivamente al plurale, perché in esso è compreso lo stalinismo –, è da tempo adoperato per un’equiparazione tra comunismo sovietico e nazifascismo, che cerca di far dimenticare il contributo decisivo dato dal primo alla sconfitta del secondo. E per deviare l’attenzione dalla circostanza che la caduta del Muro di Berlino nel 1989 – su cui è tornata Giorgia Meloni – non segna il trionfo della democrazia e la fine del socialismo o del comunismo, perché, con il venir meno del sistema sovietico, giungeva a termine un’altra cosa: un singolare “mostro storico” – da definire, a piacere, “capitalismo di Stato” o “socialismo di Stato” –, che aveva avuto una torsione totalitaria fin da subito, dopo la rivoluzione russa, e si era infine andato estenuando in una forma post-totalitaria che, a ben guardare, dura tuttora, se si pensa al destino attuale della Russia.
Insomma, la propaganda ideologica di Meloni e soci (il ministro fascioleghista dell’Istruzione – e del merito – è arrivato a inviare un messaggio a tutte le scuole) può insistere su due punti: un revisionismo storico particolarmente aggressivo, che cerca di cancellare la differenza tra i fascisti e gli antifascisti (come se questi ultimi siano assimilabili in blocco allo stalinismo, e del resto evitando di dire che lo stesso Partito comunista, nella Resistenza, non perseguiva l’obiettivo della “dittatura del proletariato” ma quello di una “democrazia progressiva”); e inoltre, certo, una ripugnante battaglia contro le Ong, che nel Mediterraneo salvano vite umane, utilizzando i migranti, usando un po’ il bastone e un po’ l’inevitabile carota umanitaria adatta ai tempi, come mezzi per premere sugli Stati europei (in particolare la Francia), affinché si corresponsabilizzino nelle politiche di accoglienza. Si scorge qui il paradosso di ogni nazionalismo: quello per cui, a volere sostenere o difendere la propria “nazione”, ci si scontra inevitabilmente con il nazionalismo uguale e contrario degli altri. Soltanto nel coordinamento e nel concerto europeo, infatti, si può pensare di dare una risposta alla questione storica delle migrazioni, per quanto possibile, nella consapevolezza che sono una caratteristica ineliminabile del nostro tempo.
L’ibridazione culturale – quella per cui l’Occidente non è, non è mai stato, nulla di “puro” – è un processo di durata secolare. Un suo capitolo fondamentale è stato quello del colonialismo, che al giorno d’oggi, in una fase che solo parzialmente si può definire postcoloniale, si esprime in un movimento verso la metropoli europea di masse di forza-lavoro giovanile, e di persone in fuga da scenari di guerra, che sono la nuova espressione di quello che Marx chiamava “esercito industriale di riserva”. Ma questo fenomeno si svolge sotto i nostri occhi in una maniera che fa precipitare il passato immediatamente nel presente: in un momento, cioè, in cui la deindustrializzazione, i processi di automazione, e così via, hanno profondamente mutato il mondo del lavoro, che vede, accanto a punte altamente qualificate, lavoratori posti in condizioni semischiavistiche. È lo stesso mercato del lavoro, nient’affatto “aperto”, con una forza-lavoro per nulla “libera sul mercato”, a richiedere, sempre di più, dei disperati che si adattino a mansioni ormai rifiutate dalla gran parte della mano d’opera autoctona.
Si può vedere così come sia stretto l’intreccio tra ciò che l’estrema destra europea chiama “sostituzione etnica” – il fatto cioè che sempre nuovi immigrati arrivino nel nostro continente, modificandone, in forza del loro numero, la cultura antropologica, e vanificandone ogni pretesa identitaria – e i processi economici. Il che, specialmente se messo in rapporto con la crisi ecologica, sarebbe alla base della necessità di riaprire la discussione intorno al modello di sviluppo complessivo; mentre diventa piuttosto, per un governo come quello italiano attuale, nient’altro che una stampella atta a sorreggerne la sostanziale impotenza.