I risultati delle elezioni americane di midterm sembrano rassicurare la Casa Bianca. L’avanzata repubblicana ha strappato la Camera dei rappresentanti, come avviene di prammatica a metà mandato di un presidente, ma il Senato pare che rimanga a seppur lieve maggioranza democratica. Anche sul fronte dei governatori, la spallata trumpiana non ha modificato la geografia dei poteri. Ovviamente, le ragioni di questo quadro sono molte, sia locali sia nazionali. Centrale è comunque la questione economica, con lo straordinario sforzo di Biden di contenere il disagio della congiuntura negativa mediante un’iniezione di denaro, che ha inevitabilmente riacceso l’inflazione. Il suo governo appare, nello scenario globale, forse quello più keynesiano dell’Occidente – una lezione che dovrebbero imparare in Europa.
Poi rimangono incombenti i nodi internazionali, sia con la guerra in Ucraina sia con il crescente contenzioso con Pechino. Su questi scacchieri, non dovrebbe mutare molto, se non un’intensificazione della pressione di Washington su Kiev per rendere più agevole una possibile intesa, magari solo sul cessate il fuoco invernale.
Lo scontro divampato sul fronte dei diritti civili – cavalcato dai democratici che hanno innanzitutto parlato al popolo delle donne, che ha risposto con un voto di massa – ha permesso ai candidati di Biden di reggere il corpo a corpo che avevano ingaggiato soprattutto gli aspiranti al seggio legati a Trump. Indicativo il furioso frontale in Pennsylvania, dove si sono contesi il posto di governatore John Fetterman, vice del governatore democratico uscente, e lo sfidante, il chirurgo, star televisiva Mehmet Oz, finanziato direttamente dalla stretta cerchiadi Trump. Una sfida culturale prima che politica.
Fetterman era stato colpito da un ictus nei mesi scorsi, che ne ha limitato l’azione elettorale, oltre a esporlo alle feroci frecciate degli avversari, che – senza mezzi termini – ne denunciavano l’inadeguatezza. In suo soccorso sono arrivati, nei giorni scorsi, sia Biden sia Obama, e il soccorso blu, com’è stato definito l’intervento dei due presidenti, ha funzionato, permettendo al candidato democratico di vincere la sfida.
Vittorie culturali – dove la contrapposizione ha una natura quasi antropologica, fra due modi diversi di essere americani, più che fra due politiche diverse per governare lo stesso Paese – le registriamo con l’affermazione al vertice del Massachusetts di Maura Halley, prima donna a dichiararsi ufficialmente lesbica, o con quella del primo governatore afroamericano del Maryland, il democratico Wes Moore, o ancora del primo deputato della generazione Z, il venticinquenne Maxwell Frost: un ragazzo sopravvissuto a una delle tante stragi che insanguinano la provincia americana, che ha fatto tutta la campagna elettorale contro l’uso libero delle armi.
Proprio la frontiera culturale sembra rendere meno agevole la strada imboccata da Trump, ora insidiato anche in casa propria, nel Partito repubblicano, dall’astro nascente, il confermato governatore della Florida, De Santis. Contro di lui, più che nei confronti di Biden, Trump ha sparato bordate a palle incatenate, lanciando addirittura veri e propri avvertimenti in stile mafioso, dicendo, nel suo discorso di commento al voto, di sapere cose molto spiacevoli sul suo conto. Siamo così ai materassi, ed è probabile che proprio la geografia del voto e l’intensità dei messaggi, appunto culturali, recapitati dall’elettorato americano possa rinvigorire la componente moderata dei repubblicani, che non vuole consegnarsi mani e piedi al miliardario di New York.
Siamo a un giro di boa che parla anche all’Europa, dando una sponda a un fronte, al momento mal messo, di forze democratiche che oggi si vedono strette nella morsa populista. La resistenza del voto contro i reazionari, in America, spinge le componenti più progressiste del vecchio continente a uscire dal guscio. Paradossalmente, questa opzione rende però ancora più complicata la ricostruzione di una sinistra, che si vede tutta schiacciata verso un centro liberal.
In questo scenario – fortemente polarizzato, attraversato da pulsioni identitarie, che arrivano addirittura a mettere in discussione lo stesso patto federale fra gli Stati americani – è piombato Elon Musk con la sua dichiarazione di voto per i repubblicani, fortemente polemica nei confronti della Casa Bianca. Una scelta contraddittoria, come spesso accade al magnate sudafricano. Musk, com’è noto, è al fianco della resistenza in Ucraina con la sua flotta satellitare, appoggiando la politica del Dipartimento di Stato di Biden; al tempo stesso, dopo l’acquisto di Twitter, ha abbracciato una politica liberista, di porte aperte senza controlli sui social, che strizza l’occhio appunto a Trump.
Ora, dopo lo scampato pericolo, ci si aspetta una reazione da parte del partito del presidente. Non certo una vendetta, ma sicuramente un riallineamento delle strategie della Casa Bianca su canoni di maggiore sicurezza e trasparenza delle attività digitali. In queste elezioni, la rete è stata ancora un vettore di interferenze e tentativi di manomissione del senso comune in molti Stati. In particolare da parte dei russi, intervenuti attraverso il cosiddetto cuoco di Putin, Evgenij Prigožin – un oligarca arricchitosi all’ombra del presidente, capo del famigerato gruppo Wagner (i mercenari che combattono nel Donbass, con le truppe regolari di Mosca), che ha apertamente dichiarato che i suoi apparati tecnologici sono intervenuti nel corso della campagna elettorale americana e lo faranno ancora. L’effetto “Cambridge Analytica” non sembra svanire. Del resto, come si potrebbe archiviare una tecnica, quella che il capo di Stato maggiore russo, Gerasimov, ha definito “guerra ibrida”, che permette di spostare, in maniera decisiva, consensi e adesioni nei collegi centrali di una contesa elettorale?
Gli uomini di Biden avevano già parlato di un’ecologia della rete, rendendo il mercato americano meno distante da quello europeo, in cui gli ultimi interventi legislativi, come di Dgpr sulla gestione dei data base e il Dma (Digital Market Act), ha limitato la discrezionalità dei proprietari delle piattaforme. Siamo peraltro in un tornante decisivo del sistema digitale. I marchi più tradizionali, come Google, Facebook e Amazon, stanno soffrendo un calo di entusiasmo, che li ha portati a grosse perdite in Borsa. Musk, proprio in questa congiuntura negativa, deve far fronte al perfezionamento dell’acquisto di Twitter, che lui ha sovrastimato a quarantaquattro miliardi di dollari, contro un valore reale, stimato da tutti gli esperti a non più di quindici.
Le possibili difficoltà economiche porteranno Musk a esasperare la sua svolta liberista, rendendo Twitter un vero di servizi a pagamento, ma forse si raffredderà la sua convergenza con la destra trumpiana. Proprio poche ore dopo la diffusione dei risultati, il poliedrico imprenditore ha postato su Twitter una cauta presa di distanza dai repubblicani, ricordando che lui è sempre stato un democratico indipendente. Ma al di là delle sue furbizie, i democratici – non solo americani – devono affrontare il nodo rimasto sempre in sospeso nel corso di questi decenni: come si governa la rete? Come si impone un regime negoziale e trasparente ai padroni del calcolo?
Siamo a un punto in cui ogni esitazione mette in discussione la natura stessa della democrazia. E proprio questo spazio, la civilizzazione negoziale dell’economia digitale, potrebbe agevolare la ricostruzione di un’identità della sinistra, che potrebbe rappresentare l’unico linguaggio politico in grado di declinare libertà e trasparenza, rendendo la rete il terreno di una nuova stagione conflittuale e condivisa per un vero welfare dell’intelligenza artificiale.