Alla fine, sta andando come doveva andare. Pur in una tumultuosa polarizzazione, il Paese profondo ha respinto gli eccessi: le fantasie di golpe, da una parte, e gli allarmi suscitati in quella opposta, anche al di là delle frontiere. I conati insurrezionali di qualche migliaio di camionisti avevano potuto far confondere il Brasile di oggi con quello degli anni Settanta. Ma sono abortiti nei tafferugli e nei disagi prolungati, fortunatamente senza alcun costo di sangue. Si dice che abbiano suscitato divisioni nella stessa famiglia Bolsonaro, con i tre figli maschi, impegnati tutti in politica, più disposti del padre a correre rischi estremi. E che la parola definitiva sia stata pronunciata dai più alti gradi militari, com’è noto esposti in gran numero nel governo. A cominciare dal generale Hamilton Mourão, vicepresidente della Repubblica. Seguito o preceduto, non si sa, da più di un grande gruppo industriale.
Il bolsonarismo è certamente portatore di un’accentuata carica eversiva, nient’affatto esaurita nelle violente manifestazioni stradali di Santa Catarina, Rio Grande do Sul e San Paolo: Stati in cui seguaci e alleati dell’ex capitano dell’esercito hanno vinto il ballottaggio. I loro interessi politici torneranno a farsi vedere presto nelle iniziative parlamentari che porteranno al Congresso, dove, nell’insieme, costituiscono maggioranza. Lula dovrà disputargliela di volta in volta attraverso una strategia capace di scoprirne le non poche contraddizioni. La sua terza magistratura al vertice dello Stato si preannuncia all’insegna della difesa dei diritti, quindi delle riforme necessarie a ridurre le disuguaglianze estreme, che in Brasile e in America latina costituiscono il primo ostacolo alla modernizzazione (i numeri della Cepal lo dimostrano), oltre che un’insidia permanente per la democrazia.
Bolsonaro, del resto, è un ammiratore dichiarato di Donald Trump, dello stile impetuoso, del metodo autoritario, della democrazia limitata. La “profonda crisi epistemologica”, che Barack Obama ha evocato per spiegare l’irrazionalismo del fenomeno Trump, può aiutare a comprendere anche Bolsonaro e quella parte di Brasile che lo sostiene, condividendone l’avversione per il Pt, già meno quella per Lula, ma in ogni caso non necessariamente disposta a seguirlo ovunque e comunque (è il caso della maggioranza dei vertici nelle grandi imprese e nelle forze armate). È la difficoltà storica della nostra epoca, sospinta in una transizione senza fine da una rivoluzione tecnologica permanente, che scuote ogni consuetudine fino a imbrogliare la convinzione “fino a prova contraria” con la fede in ogni caso. Ostacolando così la costruzione di un sistema comunicativo condiviso, fondato sull’insostituibilità del dato empirico.
È la strategia proposta pubblicamente da Steve Bannon, l’ufficiale di rotta di Donald Trump, e non solo, negli Stati Uniti, e non solo: “Inondiamo il terreno di merda”; o, in termini più urbani, “solleviamo un polverone” nella realtà virtuale delweb e in quella sociale d’ogni giorno, rendiamo tutto irriconoscibile. Qualche capo-bastone dei camionisti ha inteso recitarlo a memoria, questo copione, per poi restare a secco strada facendo… È un aspetto del nuovo negazionismo, posto in essere due anni addietro di fronte al Covid-19, che Bolsonaro (ma anche più di un pastore evangelico a Rio, a Curitiba, a San Paolo) ha tentato di banalizzare con istintivo volontarismo, ancor prima che per calcolo. Presentando il virus come quello di una comune influenza stagionale, e favorendone così la diffusione in un Paese spesso sanitariamente indifeso, con un saldo indimenticabilmente luttuoso: 685mila morti nelle statistiche ufficiali. Una tragedia che, in mancanza di una spiegazione condivisa, viene ancora vissuta da milioni di brasiliani come una fatalità, come tale passibile di ripetizione.
A questo riemergere di tratti magico-primitivi – per fronteggiare le difficoltà di un impervio e prolungato passaggio d’epoca –, tanto più lancinante quanto maggiore e inadeguato è il livello di sviluppo, si oppongono (non solo in Brasile) la realtà economica e quella politico-istituzionale preposta a regolarla. Non sono una semplice formalità burocratica i saluti augurali e i riconoscimenti indirizzati a Lula dai governi di tutti i maggiori Paesi del mondo. Con la produttività frenata dal Covid-19, le tensioni acuite dai sovranismi in varie zone nevralgiche del pianeta, l’inflazione scatenata dalle conseguenze della guerra in Ucraina, i commerci internazionali languono. Prevale l’interesse a non castigarli ulteriormente, evitando di favorire il dissesto di un grande Paese come il Brasile, undicesimo Pil del mondo. Un’economia essenzialmente esportatrice che non può permettersi di non ascoltare i mercati. È a partire da qui che, da più parti, Lula è sollecitato a lavorare.