In Cile un sistema pensionistico, basato su un meccanismo di capitalizzazione, nel corso del tempo ha evidenziato innumerevoli carenze, che la stragrande maggioranza dei cileni ha giudicato imputabili al sistema stesso. Come dimostrato da vari studi esistenti, esso tutela coloro che hanno avuto una vita lavorativa lineare godendo di alte retribuzioni. Dipendendo le pensioni dalla redditività dei fondi, gestiti dalle cosiddette Administradoras de fondos de pensiones (Afp), le loro performance sul mercato si sono rivelate insufficienti, tali da non poter soddisfare l’insieme degli assistiti. Il risultato è che le pensioni cilene, affidate al settore privato da Pinochet fin dal 1980, non garantiscono un livello acquisitivo minimo, finendo, anzi, per approfondire le disuguaglianze sociali. Da tempo sono diventate un obiettivo contro il quale si è mobilitata la società civile, e contro il quale si è concentrato ogni anelito di trasformazione.
Secondo il sistema pensionistico in atto, il lavoratore è tenuto a versare almeno il 10% del suo compenso salariale alle Afp. Con le somme raccolte nel corso degli anni, che vengono immesse nel mercato dei capitali, esse sono tenute a corrispondere la pensione futura a chi ha operato i versamenti. Tralasciando le innumerevoli ingiustizie che tale sistema consente – per esempio liquidando pensioni ben più robuste ai membri dell’esercito e delle forze di polizia –, in passato ogni progetto di riforma è stato contrastato dai fondi pensione. Ciò è già accaduto durante il primo governo Bachelet (2006-2010), quando l’attuale ministro delle Finanze cileno, Mario Marcel, aveva guidato una commissione il cui compito era riformare il sistema in vigore. Ma è accaduto anche durante la presidenza del neoliberista Sebastián Piñera. Sta di fatto che, sulle pensioni, non si fece nulla.
Durante il secondo mandato di Michelle Bachelet (2014-2018), l’economista David Bravo fu a capo di una commissione i cui risultati evidenziarono come le pensioni che i lavoratori cileni ottenevano versando il 10% dello stipendio, durante la loro vita lavorativa, consentivano loro di avere un trattamento pensionistico pari al 35% del reddito di lavoratori attivi, a fronte della media del 66% dei Paesi dell’Ocse.
Ciò detto, non desterà stupore che uno degli obiettivi dell’estallido social, scoppiato per un banale aumento di pochi centesimi del costo del biglietto della metro di Santiago nell’ottobre del 2019, sia stato fin da subito la richiesta di un nuovo sistema pensionistico che potesse mettere al riparo chi era stato collocato a riposo dalla necessità di continuare a lavorare per poter sopravvivere. Una realtà ben diffusa, anche dopo che, a partire dal 2008, il sistema pensionistico cileno è stato integrato dai fondi che lo Stato sborsa per garantire un reddito ai più poveri e a quelli che non hanno potuto versare quote del loro salario ai fondi pensionistici.
Il grande movimento che con lo scoppio della rivolta sociale si generò autonomamente dalla politica istituzionale, o per meglio dire in antitesi ad essa, non solo ebbe il merito di sorprendere un Sebastián Piñera, che solo pochi giorni prima vantava la granitica stabilità del Cile in un’intervista a un importante quotidiano internazionale, ma anche di mettere a fuoco le strozzature che impedivano al Paese uno sviluppo più democratico e meno diseguale.
Abbiamo parlato, in altre occasioni, di quello che è stato il processo costituzionale che, secondo la volontà della maggioranza dei cileni, avrebbe dovuto superare il modello di una democrazia “sotto tutela”, con cui Pinochet volle imbrigliare il Paese negli anni a venire per garantire alle classi dominanti l’intangibilità dei propri privilegi. Sul referendum con il quale il testo uscito dalla Convenzione costituente è stato respinto dai cileni, ormai sono stati scritti fiumi di parole. Ma, anche se quel testo è stato bocciato, la maggioranza del Paese è a tutt’oggi favorevole a superare il lascito di Pinochet. È la via che si dovrà intraprendere che ancora non è chiara. Dopo l’esito del referendum, l’esecutivo di Gabriel Boric, fortemente indebolito, ha dovuto imbarcare esponenti della vecchia Concertación che aveva guidato i governi della transizione.
Boric, frattanto, è sceso costantemente nel gradimento dei cittadini, e ora tocca il 26%, il suo punto più basso: in quella che appare una partita a scacchi politica in cui, almeno in una sua parte, la destra alza la testa e pone paletti alla definizione della via costituzionale. A tal punto che molti – ivi compresa la ministra dell’Interno, Carolina Tohá, esponente della vecchia Concertación, nella sua recentissima intervista a “El País” – paventano il pericolo che l’obiettivo sia, ancora una volta, quello di non farne niente.
Ma se la via costituzionale alla trasformazione del Cile è ritardata – e più di qualcuno, Tohá per prima, è pronto a scommettere che essa non potrà vedere la luce prima del 2026 –, Boric ricorre all’unica chance in suo possesso che gli potrebbe consentire di superare la complicata congiuntura che la sua presidenza vive. Alla quale è stato perfino negato il naturale periodo di luna di miele con il Paese. Pare quindi intenzionato a mantenere fede alle promesse emblematiche fatte in campagna elettorale, partendo proprio da uno dei temi più sentiti dai cileni. Così, mercoledì 2 novembre, il più giovane presidente al mondo ha annunciato l’invio di un disegno di legge al Congresso per cambiare l’attuale sistema privato dei fondi pensione. E ha annunciato che le Afp, con la sua riforma, cessano di esistere: saranno sostituite da un principio basato su una previdenza poggiante sui contributi dello Stato, dei datori di lavoro e dei lavoratori. In quest’ottica, una delle novità più significative è la creazione di un ente statale, un amministratore pubblico di fondi, per porre fine alla gestione esclusiva da parte delle Afp.
Il Cile è uno dei Paesi con il reddito più alto in America latina, ma il 72% delle pensioni è al di sotto del salario minimo, e un pensionato su quattro riceve una pensione al di sotto della soglia di povertà. E questo – ha ricordato Boric – “sta accadendo nello stesso momento in cui le Afp stanno facendo enormi profitti, anche se i risultati e la redditività dei fondi sono negativi”. Se la proposta di legge del governo sarà approvata, la funzione dell’ente pubblico sarà quella di un’assicurazione sociale basata su un fondo di risparmio collettivo con anagrafe individuale, alla quale i datori di lavoro contribuiranno gradualmente fino a un contributo pari al 6%, mentre sui lavoratori graverà una trattenuta del 10,5% sulla loro remunerazione mensile.
Queste, a grandi linee, le intenzioni del governo che ha fornito, a suo sostegno, anche qualche calcolo, secondo il quale una persona che ha contribuito con uno stipendio di circa 425 dollari statunitensi al mese, per metà della sua vita lavorativa, riceve una pensione di circa 280 dollari. Mentre, una volta approvato il nuovo sistema, lo stesso pensionato passerebbe ad avere 415 dollari, ovvero il 46% in più nel caso degli uomini e il 52% in più nel caso delle donne.
Ciò detto, il successo della proposta di riforma pensionistica è strettamente legato all’approvazione del progetto di riforma tributaria presentata il primo luglio scorso. Lo scopo di tale riforma è quello di modificare le normative fiscali in vigore per generare le risorse di cui lo Stato ha bisogno per dare attuazione al suo programma. In un periodo di penuria di risorse, che sta condizionando le condotte dei nuovi governi progressisti sudamericani, la strada intrapresa da Boric in Cile per molti aspetti assomiglia a quella imboccata da Petro in Colombia, con la sua riforma tributaria, necessaria all’attuazione della riforma agraria, come precondizione per attuare il progetto di “pace totale”.
Boric ha la necessità, infatti, di disporre di un maggiore gettito per destinarlo all’ampliamento dei diritti sociali e alla diversificazione produttiva, poggiando sul principio di progressività fiscale. Ciò dovrebbe permettergli di sviluppare gli assi principali della sua visione riformista relativamente ai diritti sociali, al miglioramento della democrazia, alla giustizia e sicurezza, alla crescita inclusiva e alla tutela ambientale. Il finanziamento della riforma del sistema pensionistico proposta dal governo dipende, come si diceva, dall’approvazione della riforma fiscale. Mentre il processo della sua approvazione si annuncia già da ora difficile, dato che non ha il sostegno dell’opposizione e la discussione parlamentare è appena agli inizi. Difficile è anche il quadro economico generale, poiché il Cile è l’unico Paese dell’America latina in cui per il prossimo anno si prevede una contrazione economica.
Sul piano politico, l’attuale Congresso è il più diviso da quando il Cile è tornato alla democrazia, mentre la coalizione di governo è minoranza in entrambe le Camere e dispone del minor numero di deputati e senatori degli ultimi decenni. Senza dimenticare che settori della maggioranza di Boric hanno già votato contro diverse sue proposte. In una situazione che la bocciatura del referendum costituzionale ha reso più complicata, al governo non rimane che fare ricorso alle doti di tessitori di alcuni suoi esponenti, in buona parte provenienti dalla vecchia Concertación. Oggetto, nel recente passato, di feroci critiche.
Dopo che i due tentativi di cambiare il sistema pensionistico di Bachelet e di Piñera non hanno avuto successo, con la sua riforma previdenziale e con quella fiscale, strumenti insostituibili di ampiamento della democrazia sociale, Boric si gioca tutte le carte per mutare il volto del Paese. Un suo fallimento metterebbe a lungo una pietra tombale sopra ogni anelito di cambiamento, spalancando le porte alla destra.