Il filosofo Michael Sandel – nel suo La tirannia del merito, pubblicato nel 2021 – ricorda che negli Stati Uniti, a marzo del 2019, c’è stato un grande scandalo: famiglie facoltose hanno pagato molti soldi a William Singer, un consulente per l’orientamento universitario senza scrupoli, che, con la sua attività, si rivolgeva a genitori benestanti e ansiosi. Prometteva loro di fare ammettere i propri figli nelle università più prestigiose d’America, corrompendone figure importanti. Negli Stati Uniti è legale donare liberamente alle università, al fine di una più probabile ammissione; ma compiere atti fraudolenti, ovviamente, è reato. In ogni caso – sia donando sia corrompendo –, si fa prevalere il denaro sul merito. Anche provando a entrare nell’università onestamente, quindi facendo il test di ammissione, i soldi prevarranno sempre, perché le famiglie ricche potranno preparare al meglio i figli, pagando per corsi privati ecc. Difficile arrivare alla conclusione che una società giusta sia una società meritocratica, in cui tutti hanno un’uguale possibilità di salire fin dove il loro talento e il duro studio li porterà. Difficile perché non realistica.
L’enfasi sulla creazione di un’equa meritocrazia genera effetti negativi sul nostro modo di concepire il successo e l’insuccesso. Essa promuove tracotanza tra i vincitori e umiliazione tra i perdenti. Per tracotanza, si intende l’atteggiamento, da parte dei vincitori, nel godere del proprio successo, dimenticandosi della fortuna che li ha condotti nel loro cammino, lasciando poco spazio alla solidarietà nei confronti di chi non ce l’ha fatta, contribuendo alla concezione secondo cui “se non ce l’hai fatta è perché non sei stato abbastanza bravo, e quindi non meriti il successo”. È il lato tirannico e ingiusto della meritocrazia.
Oggi non abbiamo molta uguaglianza di condizione. Gli spazi pubblici che aggregano tra loro le persone – al di là della classe, della cultura, dell’etnia e della fede – sono pochi e distanti l’uno dall’altro. Quattro decenni di globalizzazione, guidata dal mercato, hanno portato disuguaglianze di reddito e di ricchezza così marcate da condurci a vivere vite separate. Raramente chi è benestante e chi ha mezzi modesti si incontrano nel corso della giornata. Viviamo e lavoriamo, facciamo shopping e giochiamo in luoghi diversi; i giovani vanno in scuole diverse. E quando la macchina selezionatrice meritocratica ha fatto il proprio lavoro, quanti stanno in cima difficilmente resistono al pensiero di meritare il proprio successo, mentre quanti stanno in basso meritano allo stesso modo il loro posto.
Queste considerazioni servono a ricordarci che parlare oggi di merito nella scuola, così com’è stato introdotto dal nuovo governo italiano, non può essere disgiunto dal riaffermare con forza il tema della disuguaglianza. Lo sintetizzò bene, nel 1964, Pierre Bourdieu con I delfini: gli studenti e la cultura, o ancora, nel 1970, con La riproduzione: teoria del sistema scolastico ovvero della conservazione dell’ordine culturale: sono i figli delle classi superiori ad accedere in maggior numero alle migliori scuole, a uscirne con i voti più alti; ed essi, combinando tutto ciò con il capitale di relazioni sociali delle loro famiglie, vanno poi rapidamente a occupare le posizioni più alte nell’economia, nella pubblica amministrazione, nella cultura.
E anche don Milani, in Lettera a una professoressa,del 1967. Eccoli qui, ancora fra noi, il bambino avvantaggiato, che prima di entrare in aula, è andato al cinema e a teatro, sa giocare a tennis, conosce tanti vocaboli, frequenta persone altolocate; e quello svantaggiato, che non ha mai letto un libro in vita sua, proviene da una famiglia difficile, parla poco e male l’italiano, perché magari oggi Giannino è arrivato da tre mesi in Italia, e il pomeriggio sta solo a casa, ad accudire la sorellina, mentre i genitori lavorano. Entrambi si presentano all’interrogazione e recitano la lezione prendendo la sufficienza. Ma questo significa, ora e sempre, “fare le parti uguali fra diseguali”. Se al primo dai sei, al secondo dovresti dare almeno otto, per marcare la diversa posizione di partenza, premiando il movimento registrato dagli studenti, e poi certo anche il traguardo.
Per queste ragioni, la nuova definizione attribuita dal governo al ministero dell’Istruzione, con l’aggiunta della parola “merito”, lascia attoniti. Nulla contro il sostantivo “merito”. Ma associare le parole “istruzione” e “merito” è qualcosa che andrebbe fatto con grande prudenza, ricordando che l’articolo 34 della Costituzione prevede che “I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi” e che “la Repubblica rende effettivo questo diritto”. L’articolo 3 afferma, inoltre, che “è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. Se si vuole parlare di merito, occorre che questo sia imprescindibile dall’uguaglianza dei punti di partenza – quindi in maniera molto concreta.
Se oggi ancora tanti, purtroppo, partono molti metri indietro, un’efficace politica scolastica dovrebbe avere come obiettivo prioritario quello di riconoscere e colmare questa distanza. Nei fatti, non a parole. Non è soltanto il sogno di raggiungere remunerazioni elevate, ma quello di un ordine sociale in cui ogni uomo e ogni donna siano in grado di poter puntare al massimo status di cui sono intrinsecamente capaci, e di essere riconosciuti dagli altri per quello che sono, indipendentemente dalle circostanze fortuite della nascita o della posizione.