Senza tema di smentita Bejamin Netanyahu può essere considerato il protagonista assoluto della politica israeliana degli ultimi decenni, il più longevo premier della storia di Israele, ancor più del padre della patria David Ben Gurion. La conferma è arrivata proprio ieri, con la vittoria netta dell’ex premier, già accusato di frode e abuso di potere, alle elezioni politiche. I risultati dovrebbero garantire un futuro stabile allo Stato ebraico, dopo cinque appuntamenti elettorali in soli tre anni. Il Likud – storico partito conservatore, diventato però con il tempo una formazione di estrema destra – è ora il primo partito con il 44,6% dei voti e 31 seggi alla Knesset, contro i 24 del Yesh Atid del premier Yair Lapid, mentre si è piazzato al terzo posto il partito di estrema destra, Sionismo religioso, di Itamar Ben Gvir, con 14 seggi: una formazione pericolosa e fascistoide, attaccata durante la campagna elettorale da Lapid che ne aveva denunciato l’ideologia razzista e fascista.
Reggono poi i partiti religiosi, i laburisti, il partito arabo islamista di Mansour Abbas (grande alleato di Lapid), mentre restano fuori i comunisti di Hadash Taal e, clamorosamente, lo storico partito di sinistra Meretz, guidato da Zahava Gal On, sempre alleato dei laburisti e punto di riferimento importante per la democrazia israeliana: fuori dalla Knesset perché, per un soffio, non ha superato la soglia di sbarramento elettorale (3,25%). Il tutto con un’altissima affluenza alle urne – oltre il 66% degli aventi diritto –, come non si vedeva dal 1999, motivata evidentemente dalla necessità di raggiungere, com’è appunto successo, una stabilità politica.
Uno scenario rischioso, che non fa che confermare un importante spostamento a destra del quadro politico mondiale. Aggravato, come dicevamo, dal successo di una destra ultra-religiosa, che ha già annunciato l’intenzione di volere annettere l’intera Cisgiordania, ignorando ovviamente ogni elementare diritto dei palestinesi, che non sono, a onor del vero, mai stati considerati una priorità dai politici israeliani, ma che ora rischiano di essere schiacciati definitivamente dal delirio di Ben Gvir, il quale ha già chiesto il ministero della Pubblica sicurezza, e del suo inquietante alleato Bezalel Smotrich, co-fondatore della Ong Regavim, un’organizzazione che monitora e persegue azioni legali nel sistema giudiziario israeliano contro i progetti di costruzione intrapresi da palestinesi, beduini e altri arabi in Israele e in Cisgiordania. Non manca il progetto di attaccare e smantellare la Corte Suprema, la più alta istanza giudiziaria del Paese.Va ricordato, tanto per avere un’idea di che cosa frulla nella testa di Ben Gvir, che in casa sua fa bella mostra di sé, appeso al muro, un ritratto di Baruch Goldstein. Ovvero del giovane colono di Kiryat Arba che, nel 1994, entrò nella moschea di Hebron e aprì il fuoco contro una folla di palestinesi, uccidendone venti.
La vittoria dell’estrema destra in Israele non lascia tranquilli i principali interlocutori di Tel Aviv. Il presidente Biden non ha certo ben accolto la vittoria di Netanyahu. Come pure i Paesi del Golfo, che hanno già messo in guardia Israele sul rispetto degli accordi di Abramo del 13 agosto del 2020, quando era presidente degli Stati Uniti Donald Trump. Intesa che ha normalizzato i rapporti tra gli Emirati arabi uniti e Israele, non a caso dedicati al patriarca Abramo, considerato una figura di riferimento sia dall’ebraismo sia dall’islam. Denominazione che mal si concilierebbe, ora, con l’estremismo del nuovo governo israeliano.
Inoltre, anche se la questione palestinese non è mai stata una grande preoccupazione dei ricchi Paesi del Golfo, sarebbe difficilmente sopportabile un ulteriore aggravamento del conflitto con i palestinesi, da un lato, e con gli arabi israeliani, dall’altro. Per il premier dell’Autorità nazionale palestinese (Anp), Mohammad Shtayyeh, citato dall’agenzia Ma’an, “l’ascesa dei partiti religiosi di estrema destra alle elezioni israeliane, è un risultato naturale delle crescenti manifestazioni di estremismo e razzismo nella società israeliana, di cui il nostro popolo soffre da anni”.
Il sicuro aggravamento del conflitto israelo-palestinese avverrà in un contesto già molto preoccupante: in Cisgiordania prosegue l’operazione “Break the wave”, avviata lo scorso aprile, contro le milizie palestinesi. Nel mirino dell’esercito israeliano c’è la “Tana del leone”, temibile gruppo armato palestinese, i cui attacchi hanno provocato la morte di 19 israeliani in Cisgiordania tra coloni e militari. Una risposta allo stillicidio di morti e arresti palestinesi (125 morti e già oltre duemila arresti durante il 2022). Quella disponibilità di Lapid a riaprire un improbabile dialogo tra le due parti (vedi qui), comunicata lo scorso 24 settembre, in occasione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, era già stata rapidamente messa da parte, dando invece la preferenza a un ulteriore giro di vite per fini elettorali.
Le elezioni si sono svolte dopo pochi giorni da uno storico accordo con il Libano del presidente Michel Aoun riguardante i confini marittimi (vedi qui). Un’intesa di grande interesse, che ha avuto anche l’ok di Hezbollah, perché apre la strada a una gestione equilibrata dello sfruttamento dei giacimenti di gas off-shore nel tratto di mare conteso. Come sottolinea l’Ispi (Istituto per gli studi di politica internazionale), “l’intesa è stata raggiunta attraverso negoziati indiretti mediati da Stati Uniti e Onu, e consentirà a Israele di sfruttare l’enorme giacimento sottomarino di gas di Karish, mentre il Libano potrà iniziare le prospezioni di quello di Kana, gestito dalla Total con partecipazione dell’Eni”. Ma per il premier l’accordo potrebbe contenere tra le righe una sorta di riconoscimento dello Stato di Israele, da parte di Beirut, certamente di carattere storico. “Questo è un successo politico. Non capita tutti i giorni che uno Stato nemico riconosca Israele, con un accordo scritto, di fronte alla comunità internazionale” – aveva sottolineato Lapid. Ma come gestirà tutto questo il nuovo premier? In un certo senso, dovrebbe prevalere il pragmatismo, e dunque difficilmente potrà essere messo in discussione un evento che non potrà non migliorare la disponibilità di risorse per Israele. Pensare però che Netanyahu e compagni possano dare seguito a tutto questo arrivando a un riconoscimento reciproco, appare piuttosto improbabile, considerato che l’ostilità assoluta nei confronti di tutti gli arabi sarà uno dei principali assi portanti della futura politica di Israele.