Quella del merito a scuola è una trappola in cui si dovrebbe evitare di cadere. A scuola il merito non c’entra nulla, non perché si debba cercare di portare avanti tutti, considerando le differenze sociali, gli ambiti di provenienza ecc. Il merito non c’entra perché la scuola non serve a farsi una posizione, non serve ad acquisire conoscenze per riuscire nella vita e per avere un buon lavoro. A scuola si dovrebbero imparare cose che non hanno alcuna utilità pratica, che non servono. Le opere d’arte e di pensiero – e le forme sintattiche o metriche che si utilizzano per comporle – insegnano solamente che la vita dev’essere sempre interpretata, che non è immediata, dal momento che gli esseri umani, a differenza degli animali, non coincidono con il mondo e con la loro biologia. Sono portatori di un’indeterminazione che richiede la continua riflessione su se stessi e sull’ambiente in cui ci si colloca, cioè la costruzione di una “seconda natura” – così da avere una “presenza”, per dirla con Ernesto de Martino. A scuola si dovrebbe imparare questo, e questo si trovava nei programmi scolastici di una volta: letteratura, filosofia, storia – come storia delle istituzioni politiche e sociali che hanno permesso agli esseri umani di ricreare il mondo come loro seconda natura.
In tutto questo dove sta il merito? Certamente, ci saranno studenti che impareranno di più e meglio e avranno voti più o meno alti. Ma non sarà questione di merito. Semplicemente, si saranno impegnati di più o di meno ad apprendere i saperi che ci fanno diventare umani, che ci permettono di far passare il nulla nel valore, per dirla ancora con Ernesto de Martino. Il merito viene piuttosto introdotto dalle destre per dire un’altra cosa: le scuole pubbliche sono zavorrate dai figli degli immigrati e delle famiglie più disagiate, e quindi non sono in grado di creare i tecnici e i manager dell’efficienza neoliberale: dunque bisogna creare scuole di eccellenza per i migliori, senza gravami, senza pesi inutili.
La sinistra non dovrebbe quindi filosofeggiare sul merito dicendo quello che in sostanza dice da cinque decenni: rendiamo la scuola più facile per renderla più inclusiva. Dovrebbe invece dire due cose: 1) a scuola non si acquisiscono le competenze dell’efficienza neoliberale ma i saperi che rendono capaci di stare veramente al mondo e di saperlo governare come sforzo collettivo e democratico su regole norme e valori, che devono essere sempre in discussione e non dipendono da alcuna metafisica platonica o tecnoscientifica; 2) bisogna fare in modo che tutti siano in grado di accedere ai punti più alti dell’arte e del pensiero, e quindi è necessario un unico liceo dell’obbligo fino ai 18 anni, con un unico programma nazionale.
Le inclinazioni e gli interessi potranno poi essere coltivati all’università o nei vari corsi successivi al liceo. Infatti, a tredici-quattordici anni, di solito, non si hanno inclinazioni né interessi e non si può pensare che ci si possa auto-formare. Ogni giovane dev’essere informato intorno a Sofocle e Beethoven, Hegel e Leopardi, Michelangelo e Braudel. Non può sapere da solo che esistono, e non può avere idea della loro grandezza senza una minima forma di imposizione.
Lasciamo stare la parola merito. Parliamo invece del fatto che la scuola non deve servire a nulla e che in questa inutilità sta il servizio più grande che può fare alla società e ai suoi giovani. E pensiamo anche ai vecchi. Nelle nostre società aumenta la speranza di vita e diminuiscono, allo stesso tempo, i vincoli comunitari, i saperi tradizionali, le occasioni di socialità. Tanti anziani soli, esposti al pensiero della fine imminente, se adeguatamente formati in gioventù, potranno almeno trovare consolazione nella poesia, nella musica, nell’introspezione filosofica, nella contemplazione del mondo plasmato dall’ingegno umano.