“È la vittoria di un immenso movimento democratico” – ha detto Lula poco dopo avere appreso che i suoi 60.345.999 voti avevano superato i 58.206.354 andati a Bolsonaro, consegnandogli così la presidenza di un Paese mai come ora diviso e il primato di essere il più anziano capo di Stato brasiliano mai eletto. Scontata la promessa che, dal primo gennaio 2023, sarà il presidente di tutti, e non solo di coloro che lo hanno votato, Lula ha promesso una via d’uscita che riporti la pace e ricostruisca un Brasile dilaniato dall’odio, al quale si sforzerà di restituire la possibilità di vivere democraticamente. E con buona probabilità dovrà caratterizzare il suo terzo mandato mediante un approccio più centrista rispetto al passato, dovendo mediare con l’ampio schieramento che l’ha sostenuto, pur di evitare i pericoli per la democrazia brasiliana rappresentati da Bolsonaro.
“Hanno cercato di seppellirmi vivo e io sono qui per governare questo Paese in una situazione molto difficile. È ora di abbassare le armi, che non avrebbero mai dovuto essere brandite. Le armi uccidono. E noi scegliamo la vita. Credo che i principali problemi del Brasile, del mondo, dell’essere umano, possano essere risolti con il dialogo, non con la forza bruta. La ruota dell’economia tornerà a girare, con la generazione di posti di lavoro, la valorizzazione dei salari e la rinegoziazione dei debiti delle famiglie”. Queste alcune delle dichiarazioni del neopresidente, mentre i suoi sostenitori invadevano la Avenida Paulista, a San Paolo, per festeggiare l’elezione di un leader che alla sua bella età sembra ancora insostituibile. Il quale, per di più, ha vinto senza avere anticipato nella campagna quasi nulla del suo piano di governo, premiato da un voto che, prima di tutto, è stato un voto contro l’attuale presidente, il primo nella storia della democrazia brasiliana a non essere rieletto per un secondo mandato.
Dal canto suo Jair Bolsonaro ha fatto spegnere le luci del Palácio da Alvorada alle 22.06, ora locale, senza dire una parola – e soprattutto senza riconoscere la vittoria dell’avversario, come il fair play avrebbe dettato. L’unico ad averlo sentito è stato l’odiato presidente del Tribunal supremo eleitoral, Alexandre de Moraes, che gli ha comunicato l’esito del voto, mentre esponenti dell’entourage presidenziale hanno escluso colpi di testa da parte dello sconfitto. Il presidente uscente eserciterà i suoi pieni poteri ancora per due mesi, anche se dovrà accettare di fornire agli incaricati del neoeletto tutte le informazioni riguardanti gli affari di Stato necessarie al passaggio dei poteri, e poi dovrà consegnare la fascia giallo verde all’odiato “ladro”. Date le premesse, la fase di transizione potrebbe essere particolarmente tribolata considerati i pessimi rapporti che intercorrono tra i due, i quali durante tutta la campagna elettorale si sono scambiati accuse che ben difficilmente potranno essere dimenticate.
Sul piano umano, il risultato di domenica segna anche la rinascita di Lula da Silva, travolto dagli scandali di corruzione di Lava Jato. L’esito di ieri lo riscatta dai 580 giorni passati in prigione a Curitiba e dal disprezzo della metà del popolo brasiliano che, nel 2018, aveva punito il Partito dei lavoratori scegliendo il cambiamento promesso dal capitano in congedo Bolsonaro.
Nella incapacità della sinistra brasiliana di trovare un’alternativa credibile, fallito il tentativo fatto con Fernando Haddad, Lula è tornato con un vicepresidente centrista, e il Brasile gli ha dato credito pur di liberarsi di un presidente che ha commesso una serie infinita di errori, che hanno minato l’azione del suo governo e la sua immagine, soprattutto a causa delle scelte fatte durante la pandemia.
La scelta di ieri avviene in un Paese che, nonostante Bolsonaro, si è però ripreso rapidamente dalla pandemia, e che attualmente rappresenta la migliore economia della regione. Un merito che l’attuale presidente aveva, inutilmente, cercato di ascriversi durante la campagna. Una risicata maggioranza di brasiliani – pur nella totale assenza di un dibattito sulle politiche necessarie per far uscire il Paese dalla crisi, in primo luogo politica – ha deciso di rinnovare la fiducia a un uomo che è stato travolto da uno dei più grandi scandali di corruzione, riuscendo tuttavia a farsi cancellare le condanne per vizi formali nelle inchieste che lo hanno riguardato. E che ha vinto nonostante non abbia presentato uno straccio di piano di governo o una linea economica dettagliata.
Nelle manifestazioni elettorali, e anche alle porte dei seggi, la frase più ripetuta è stata “l’era dell’odio è finita, ora la bontà e l’amore per il Brasile tornano”. E questo è stato probabilmente sufficiente a far dimenticare un passato che aveva punito sonoramente la sinistra solo quattro anni fa, per il suo coinvolgimento nella corruzione, in una sorta di rassegnazione da parte dell’elettorato, che si è visto spinto a premiare Lula pur di liberarsi delle intemperanze di Bolsonaro, primo nemico di se stesso, e del pericolo per la tenuta delle istituzioni in una democrazia ancora giovane come quella brasiliana.
La vittoria di Lula conferma l’onda progressista che da qualche tempo sta vivendo l’America latina, seguita alla breve parentesi dei governi neoliberali che hanno governato la regione dopo il tramonto del cosiddetto socialismo del XXI secolo. La grande occasione che i governi progressisti dell’area hanno sprecato limitandosi a spargere a pioggia risorse economiche, senza peraltro intaccare le strutture su cui poggiano le loro ingiuste società, ma solo approfittando dell’aumento delle materie prime, di cui sono grandi esportatori, causato dalla crescente richiesta in primo luogo da parte del mercato cinese. Un risultato ottenuto, tra l’altro, in quel torno di tempo anche dai governi conservatori, stando ai dati economici di cui disponiamo. E una scelta seguita dallo stesso Lula durante i suoi due precedenti mandati presidenziali, caratterizzati da un riformismo debole che è andato contrattando, di volta in volta, le misure adottate con i poteri forti, ma che grazie all’assistenzialismo di Stato ha potuto salvare dalla fame trenta milioni di brasiliani. Un risultato importante, un successo che gli va riconosciuto, e che tuttavia difficilmente potrà ora ripercorrere, visto il raffreddamento dello sviluppo economico mondiale, in particolare di quello cinese. Quale sarà la ricetta economica che Lula adotterà non è dato ancora sapere: ma sembra difficile che – con un parlamento ora più a destra di quello che l’ha preceduto, e con i suoi alleati moderati – Lula possa discostarsi dalle strade già in passato percorse, sebbene ora sia costretto a farlo con maggiore prudenza.
Dopo il Messico, l’Argentina, l’Honduras, il Cile e la Colombia, il Brasile completa la svolta progressista in America latina. Rispetto all’onda rosa che, dalla vittoria di Hugo Chávez, travolse il subcontinente, la nuova ondata dovrà fare i conti con una penuria di risorse. E forse non sarà nemmeno un male, dato che potrebbe costringere i governi, se vogliono fare qualcosa, a non limitarsi a galleggiare, a introdurre cambiamenti di struttura nei loro Paesi, come sta cercando di fare Petro in Colombia, con la riforma tributaria e quella agraria.
Non a caso, i primi messaggi di felicitazioni sono giunti da López Obrador, Gabriel Boric, Alberto Fernández e Gustavo Petro, con l’aggiunta dei cubani e dei venezuelani, questi ultimi forse meno presentabili, visto lo schieramento moderato che sorregge il neoeletto. Ai messaggi di giubilo, arrivati da tanti presidenti latinoamericani, si è aggiunto quello di Biden, il quale deve aver tirato un sospiro di sollievo pensando ai pericoli che l’intera Amazzonia avrebbe corso con la rielezione di Bolsonaro, che avrebbe comportato anche una riconferma della posizione brasiliana filo-Putin nel conflitto ucraino.
Ora è il momento di festeggiare, ed è giusto che sia così. Ma passata l’euforia del momento, Lula dovrà prendere tutte le misure necessarie a ricostruire il Brasile dalle macerie in cui l’ha ridotto la miseranda esperienza di Bolsonaro. Ben consapevole che la figura dell’ex capitano dell’esercito continuerà a esercitare una grande influenza politica negli anni a venire. Già testimoniata, del resto, dal successo ottenuto da esponenti a lui vicini nella conquista di molti Stati federali, nei quali Bolsonaro ha piazzato quattordici suoi alleati, mentre Lula tredici. E dovrà esercitarsi nello stesso compito in cui si stanno impegnando quei presidenti latinoamericani – Gustavo Petro, Xiomara Castro, Gabriel Boric, tra gli altri – che stanno operando per fare dei loro Paesi, in primo luogo, delle democrazie normali.