Chissà se il nuovo primo ministro inglese riuscirà nella difficile impresa di salvare il Partito conservatore dalla crisi che lo attanaglia, e soprattutto se riuscirà a traghettare il Regno Unito fuori dalle secche in cui si trova attualmente. Assurto alla più importante carica del Paese in maniera abbastanza rocambolesca – dato il rapidissimo schiantarsi della cometa Truss –, Rishi Sunak rimane in fondo una seconda scelta per i conservatori, o addirittura una terza se si considera Boris Johnson. È molto giovane, molto ricco, ha una breve carriera politica dietro le spalle, non ha grandissimo appeal tra i ceti popolari, e appartiene in tutto e per tutto a una élite di professionisti dell’economia e delle transazioni finanziarie e bancarie. È anche, per molti versi, troppo caratterizzato: figlio di immigrati, marito di una miliardaria indiana, volto di una Inghilterra multietnica, la cui presenza si percepisce sempre più nettamente se si gira per il centro di Londra.
L’India ha festeggiato l’entrata in carica di Sunak. Il premier Narendra Modi ha twittato “auguri”. La televisione di Nuova Delhi ha aggiunto enfaticamente: “Il figlio dell’India si innalza ai vertici dell’impero coloniale”. Tuttavia, Sunak non può certo essere considerato un simbolo della lotta anticoloniale. Cresciuto nell’alta borghesia britannica, ha studiato a Oxford e Stanford. Prima di entrare in politica, ha lavorato come analista e gestore di hedge funds presso Goldman Sachs. A partire da una simile formazione e pratica professionale, non poteva certo condividere l’avventura della trussonomics, che aveva tacciato di “favoletta”, e rappresenta invece una frazione di capitale molto preoccupata per l’andamento del Paese, che sta scommettendo sulla possibilità di conciliare inflazione e stabilità fino a che sarà possibile.
L’ingresso in politica è recente, è stato eletto per la prima volta nel 2016: il suo inaspettato venire alla ribalta è avvenuto quando, nel febbraio 2020, a seguito di vari screzi interni ai conservatori, è stato inopinatamente nominato ministro delle Finanze del governo di Boris Johnson. In poche settimane ha presentato un bilancio con misure di sostegno per la pandemia che cominciava a profilarsi. La conferenza stampa del marzo 2020 – in cui Sunak ha presentato il programma di aiuti e ha dichiarato solennemente che per la prima volta lo Stato avrebbe pagato i salari di tutti i lavoratori che ne avessero avuto bisogno – viene spesso ricordata come uno dei momenti chiave della sua ascesa, e ha giovato non poco alla sua notorietà. Ha colto l’occasione al volo, e all’epoca è stato elogiato da datori di lavoro, sindacati e giornalisti, che ne hanno apprezzato la moderazione di fronte agli sbandamenti di Boris Johnson nelle prime settimane della pandemia.
Sunak è però in realtà uomo poco incline alla spesa, profondamente influenzato dal thatcherismo, dall’ideologia liberale di mercato, ossessionato dall’idea di uno Stato minimo, di tasse basse, dalla sussidiarietà, su cui innesta un robusto nazionalismo, che dovrebbe rappresentare una sorta di contravveleno alla frustrazione indotta dallo scavarsi di divisioni sociali sempre più nette. Ha così ottenuto, anche per mancanza di alternative consistenti, il sostegno della maggioranza del partito, nonostante le liti feroci e le fazioni che lo dilaniano; e la sua ascesa, grazie alla sua conoscenza dell’economia, ha calmato i mercati finanziari.
Tuttavia – pur con la sicumera che non gli manca, e l’apparenza di calma e competenza – Sunak rimane lontano dal Paese reale. Anch’egli fa parte di una élite di super-ricchi: insieme alla moglie ha accumulato una fortuna personale che è due volte il patrimonio del re Carlo III. Un Paese economicamente stagnante, segnato da profondi squilibri regionali, socialmente in crisi, che avrebbe bisogno di politiche sociali e territoriali innovative ed energiche.
Quando era ministro delle Finanze, Sunak si è vantato di avere truccato le carte per spostare le risorse dalle aree urbane svantaggiate verso le circoscrizioni più ricche, pur in assenza di una reale necessità di un simile dislocamento, e ha adottato una politica di licenziamenti. In privato, si è lamentato spesso dei costi della spesa sociale e ha insistito sul fatto che non esiste “l’albero magico dei soldi”. Fautore di una riduzione delle spese per frenare l’inflazione, piuttosto che di un ricorso a nuovo debito per sostenere le famiglie, il nuovo primo ministro ha fatto subito capire, nel suo discorso inaugurale, che dovrà prendere “decisioni difficili” per fronteggiare la crisi economica.
È facile immaginare in quale direzione andranno le sue scelte. A marzo di quest’anno, Sunak è stato ampiamente criticato – anche all’interno del suo stesso partito – per non aver fatto abbastanza per proteggere i più poveri del Paese; si era stimato che, in assenza di un maggiore sostegno, 1,3 milioni di persone sarebbero cadute in povertà assoluta, ma forse il numero è stato anche maggiore. I suoi piani per aiutare i meno abbienti sono stati giudicati dal “Times” “insufficienti, inefficienti e inefficaci”.
Non pare affatto il momento giusto per il Regno Unito per trovarsi in mani sparagnine. L’inflazione supera il 10%. Gli standard di vita si sono erosi, e i britannici sono destinati a subire il maggiore calo del reddito disponibile da quando vengono registrati i dati economici. Ad aprile, dopo un ulteriore aumento delle bollette, il numero di persone in condizioni di povertà energetica ha raggiunto i 10,7 milioni.
Dopo dodici anni di potere, il Partito conservatore è ormai a corto di idee. L’unica rimasta sembra che sia quella di far quadrare i conti tagliando la spesa sociale, spostando l’onere sulle spalle della gente comune, piuttosto che recuperare risorse dai ricchi. Visti i trascorsi, è lecito supporre che Rishi ridurrà la spesa pubblica e taglierà le protezioni sociali. Difficile dire se un simile approccio potrà risollevare le sorti elettorali del suo partito. Ma, fin dall’inizio del suo mandato, una cosa appare garantita: Sunak, potenziale salvatore dei conservatori, certo non salverà il Paese in questo modo.
La presidente del Labour, Anneliese Dodds, ha detto in una intervista alla Bbc che il ricorso a Sunak è un tentativo estremo di salvare i Tories dal disastro incombente, che essi in questa fase rappresentano “il vero problema del paese”, e che si sarebbe dovuto andare a elezioni anticipate. In un lapidario tweet, Jeremy Corbyn, storico leader laburista, ha sentenziato che “il nuovo primo ministro proteggerà gli interessi dell’1% della popolazione, il restante 99 si limiterà a pagare”.
Sunak è fino in fondo un uomo della City, quindi, come del resto molti dei personaggi chiave dei gabinetti conservatori degli ultimi anni, in cui è andato progressivamente riducendosi e sparendo il ruolo dei sindacati e della stessa imprenditoria, a fronte del dominio della finanza. Molti ministri conservatori sono passati da carriere nel settore finanziario alle Finanze, o al dipartimento del Commercio e dell’Industria. Questo spiega perché una serie di modifiche fiscali e di regolamentazioni finanziarie abbia finito per favorire la grande finanza rispetto al settore manifatturiero; e le modifiche alla governance aziendale privilegiano il “valore per gli azionisti” rispetto a tutto il resto. Le agevolazioni e i sostegni fiscali sono stati tolti all’industria e utilizzati per ridurre le tasse sui dividendi, sulle vendite di azioni e obbligazioni.
I banchieri d’investimento hanno ben poco a che fare con l’economia reale. Non gestiscono aziende. Non hanno a che fare con i mercati reali dei prodotti e dei clienti. Il loro lavoro si concentra sui mercati finanziari, aiutando le manovre finanziarie delle imprese, e negoziando e gestendo le proprie attività finanziarie. In altre parole, ciò che favorisce la grande finanza, spesso ostacola le imprese e la produzione in generale. Lo strapotere del settore finanziario non ha certo favorito il buon governo. Non c’è nulla di democratico nel fatto che ampi tagli ai servizi pubblici vengano utilizzati per pagare il salvataggio del settore bancario privato, come avvenuto dopo il crollo del 2008, o che siano i mercati obbligazionari a determinare la credibilità dei governi, e forse bisognerebbe riflettere sul fatto che i banchieri e gli hedge funds siano la più grande fonte di donazioni che vanno a finanziare il Partito conservatore. Neppure appare probabile che la fiducia nella democrazia britannica venga rafforzata da un premier super-ricco, che si dice abbia eluso le tasse, e che ha costruito la propria fortuna personale come finanziere.