Sembrerebbe più che ovvio rivendicare aumenti salariali, da parte dei lavoratori e delle lavoratrici del settore energetico, nel momento in cui le rispettive aziende stanno facendo enormi profitti; e chiedere al governo di impegnarsi contro il carovita, con un controllo dei prezzi dei generi di prima necessità, così da cercare di costruire, in un crescendo di lotte, quella che Landini, oggi segretario generale della Cgil, chiamò una volta “coalizione sociale”. Perché in Italia non avviene nulla del genere? Perché da noi tutto tace, mentre in Francia ci si muove con scioperi e grandi manifestazioni?
Rispondere a questa domanda non è semplice. E non si potrebbe tirare in ballo – come un certo tipo di intellettuale ripete a pappagallo da una cinquantina d’anni – l’immaginario consumistico, la perdita di evidenza della nozione di “classe sociale”, il desiderio di quiete e di godimento diffuso nel mondo del lavoro. La pace sociale che regna in Italia, infatti, non regna in Francia, dove pure l’immaginario consumistico è lo stesso. I processi di disgregazione della forza-lavoro sono i medesimi al di qua e al di là delle Alpi: la “classe operaia” ha smarrito la coscienza di sé ovunque, soprattutto a causa della sua frammentazione nei processi produttivi, e della quasi inesistenza, ormai, dei luoghi deputati alla costruzione della sua unità. Del resto, anche una cieca volontà di consumo ignara di qualsiasi altra cosa – della crisi climatica, per esempio – può essere il detonatore di un conflitto sociale, quando si constati che consumare diventa difficile, per via del vertiginoso aumento dei prezzi, con i salari che non gli tengono dietro. Dunque una risposta va cercata altrove.
A questo punto, c’è un presupposto ipso facto politico dello scontro sociale, che non può essere trascurato nell’analisi. L’Italia è ferma socialmente perché è ferma politicamente. Da decenni. È il clima generale della politica italiana che determina una situazione in cui alle lavoratrici e ai lavoratori – poniamo, quelli dell’Eni – non venga neanche in mente di avviare una serie di agitazioni, com’è accaduto ai loro omologhi di Total. La risposta potrà apparire fuori luogo: perciò cerchiamo di spiegarci.
La premessa di tutto è che non si possa rimproverare semplicemente al sindacato (nel nostro caso la Cgil) di non avviare un conflitto sociale; è per lo più dalle maestranze di questo o quel settore produttivo che viene il primo impulso, da cui si avvia poi, a cascata, un insieme di lotte. Il sindacato può qualcosa, non tutto. Se da decenni nessuna forza politica ha più fatto del mondo del lavoro il centro della propria azione, nemmeno più a parole, ciò ha contribuito in modo non secondario alla diffusione dell’idea che tutti debbano essere un po’ “imprenditori” (magari imprenditori di se stessi). È la completa mancanza, in Italia, di una sinistra politica degna del nome, dotata di un’identità e di qualche capacità organizzativa, che ha contribuito in modo determinante a una spoliticizzazione di massa, che si riflette anche nella circostanza – in fin dei conti minimalistica – che nessuno si azzardi ad avanzare rivendicazioni salariali, neppure in un settore caratterizzato da profitti straordinari.
In Francia, a ben guardare, le cose stanno in altro modo. Il Partito socialista (che non ha mai cambiato nome) è in crisi profonda, certo: ha subito, sulla sua destra, una fuga verso Macron, dopo il disastroso quinquennato presidenziale di Hollande. Ma Macron non è altro che un Renzi francese, o meglio è Renzi che è l’imitazione di Macron (lo si potrebbe definire un Micron); e l’attuale presidente francese non è mai diventato il segretario del partito principale “della sinistra”, si è fatto subito il suo partito liberale centrista e, appena vinte le elezioni nel 2017, per prima cosa ha abbassato le tasse ai ricchi. La situazione, in altre parole, è chiara.
Il vuoto aperto dalla crisi del Partito socialista è stato poi progressivamente riempito non dai comunisti (che comunque sono rimasti tali in Francia, anche se si tratta ormai di un piccolo partito), quanto piuttosto da Mélenchon con la sua France insoumise (i “non sottomessi”). Ora, sebbene questo sia un movimento caratterizzato da una forma di “populismo di sinistra” – guidato in modo leaderistico da un tribuno più simile a un vecchio giacobino che a un dirigente di un partito moderno –, non v’è dubbio che abbia dato, in fin dei conti, una spinta positiva, soprattutto se si pensa al ruolo giocato in Francia da Marine Le Pen e alla necessità di contrapporvisi con un discorso in grado di tenere conto di un malessere sociale dai mille volti (si pensi alle agitazioni dei “gilet gialli” di qualche anno fa, innescate da un aumento delle tasse sui carburanti). Da ultimo, Mélenchon si è fatto anche promotore di un’alleanza a sinistra, la Nuova unione popolare ecologica e sociale, che va dal suo partito fino a quello socialista, passando per i comunisti e i verdi. La contestazione nei confronti del governo del presidente Macron, che non dispone più della maggioranza assoluta in parlamento, è quotidiana, senza sconti. Il Partito socialista sta giocando un ruolo di opposizione, non si è aggregato alla maggioranza relativa presidenziale, e il suo segretario, Olivier Faure, ha resistito, finora con successo, alle pressioni dei vecchi dirigenti per una rottura dell’alleanza a sinistra.
Insomma, in Francia tira un’aria molto diversa da quella italiana. Un’aria di chiarezza, anzitutto: non ci sono mai stati governi tecnici e di “larghe intese”, ma qualcosa che ha a che fare proprio con la politica e non con la tecnocrazia. Non c’è stato, in Francia, un qualunquismo all’italiana come quello interpretato dai grillini, almeno nella loro prima fase; ci sono un’estrema destra, riciclata come ovunque in senso populistico, e una sinistra che ha mutuato alcuni aspetti populistici e sovranisti, come accaduto in Spagna con Podemos. Infine, ci sono dei verdi che, nel corso degli anni, hanno saputo fare i verdi.
Tutto ciò rende la Francia, in quanto politicamente predisposta ad accoglierle, un terreno molto più favorevole dell’Italia per le lotte sociali a carattere economico. Queste non sono più – ammesso che lo siano mai state – il momento elementare di un endemico conflitto tra le classi, che sussisterebbe comunque anche quando non si manifesti in modo aperto. È infatti indispensabile un’atmosfera politica – o, in senso stretto, una comunicazione politica – che metta all’ordine del giorno un mutamento nelle forme di potere – quindi una ridistribuzione del reddito anche mediante le rivendicazioni salariali, ma come il momento di una ridistribuzione del potere nella società –, affinché un conflitto democraticamente aperto, con la progressiva costruzione di una “coalizione sociale”, possa prendere corpo e spessore.