
Gli avvoltoi che in cerchi sempre più stretti le girano sul capo la dicono lunga sul probabile destino del premierato di Liz Truss. Dopo avere cercato di salvarsi facendosi schermo del fedele Kwasi Kwarteng (detto “il kamikaze”), liberandosene poi in quattro e quattr’otto non appena intravista la mala parata, ora le tocca di fronteggiare il completo ammutinamento dei Tories. Si sapeva già (lo avevamo detto qui) che la nuova prima ministra non era molto amata nel suo stesso partito. Troppo vacuamente snob, legata a cerchie di super-ricchi e di parvenu, autoritaria e cocciuta, lontana dai quegli austeri valori tradizionali di sobrietà e prudenza che costituiscono una componente storica dei Tories e di quel ceto medio che è una parte non marginale del loro elettorato. Difficile che possa salvarla la scelta di un nuovo cancelliere dello Scacchiere (o ministro delle Finanze), Jeremy Hunt, che appartiene all’altra ala del partito conservatore, ed è un economista prudente, poco incline a scelte audaci come quelle ventilate dal duo Truss-Kwarteng.
Liquidando per sempre l’avventuroso progetto della trussonomics, Hunt ha promesso interventi “chirurgici”, e ha già compiuto una vera e propria demolizione del piano economico in precedenza presentato dal governo. Il sacrificio umano di Kwarteng, sull’altare degli dei della borsa, ha dato nel frattempo risultati positivi: sterlina in rialzo, rendimenti obbligazionari in calo, cosicché il nuovo cancelliere dello Scacchiere ha trovato una situazione meno compromessa in cui agire. Ma la radicale terapia che ha in mente Hunt potrebbe risultare estremamente dolorosa per il Paese, anche perché pare che l’intervento di emergenza prospettato rappresenti solo l’inizio. Hunt ha avvertito che ci saranno decisioni difficili da prendere in materia di tasse e di spesa, che illustrerà nella sua dichiarazione completa del 31 ottobre. Nel marzo 2020, Rishi Sunak, aveva promesso di fare “tutto il necessario” per superare il Covid-19, il che significava spendere miliardi. Ora Hunt promette cupamente di fare tutto il necessario per ripristinare la fiducia del mercato, il che significa esattamente il contrario. A Hunt quindi la responsabilità di introdurre misure certamente impopolari, mentre il premierato di Truss si riduce a un ruolo di facciata, svuotato com’è di uno dei suoi più importanti ambiti di azione.
Proprio l’economia è il segnale, costante e chiaro, della gravità della situazione, indipendentemente dal fatto che Liz Truss rimanga o se ne vada, o da chi la sostituisca. Lo scopo principale della politica britannica nei prossimi cinque anni – ci sia un governo laburista o un governo conservatore – sarà quello di colmare il buco nero di 72 miliardi di sterline che è esploso nelle finanze pubbliche, ripristinando la credibilità con i finanziatori internazionali. Se non avesse licenziato Kwarteng – ha fatto sapere un anonimo collaboratore ai giornali della domenica – Truss avrebbe dovuto affrontare una tipica “crisi del lunedì mattina” sui mercati obbligazionari, tale da rischiare di trasformare la Gran Bretagna in un “Paese del terzo mondo”.
Insomma, l’orgogliosa Inghilterra sta diventando uno di quei Paesi in cui primo ministro e cancelliere vengono scelti per placare i mercati – il che, come ogni cittadino greco o italiano sa, equivale a dire un governo costretto a preoccuparsi dei propri creditori internazionali almeno quanto dei propri elettori, e incline a creare di conseguenza pericolosi deficit democratici.
Liz Truss è stata eletta al premierato solo da una manciata di membri del Tory, ormai anch’essi scettici, e non si sa quanto a lungo potrà rimanere in sella. Ma, al di là di questa condizione da “re travicello”, si schiude anche una questione di ordine politico: chi prendere eventualmente come successore di Truss? Non è questione da poco, perché, se non dovesse reggere a lungo l’improvvisato duo nuovo, sarebbe difficile trovare un’alternativa, e tutto vogliono i conservatori meno che elezioni anticipate in un momento in cui i sondaggi danno avanti il Labour di una valanga di punti.
La parola d’ordine, costantemente ripetuta da Hunt e dalla cerchia di Sunak, è “stabilità”: così, nonostante il ribollire dei Tories, forse Truss, sia pure profondamente umiliata e ridimensionata rimarrà in sella, se non altro per evitare il caos che si verrebbe immediatamente a creare nel caso di una nuova competizione interna per la leadership, o nel peggiore dei casi di elezioni generali anticipate che potrebbero dare risultati molto sgradevoli, dopo che il Paese avrà dovuto ingoiare una medicina economica così amara come quella che propone Hunt. Medicina che si preoccupa, tra l’altro, più della salvaguardia dell’esistente che di un vero e proprio rilancio dell’economia del Regno Unito. D’altra parte – e Kwarteng lo ha ribadito nella letterina di dimissioni –, se si vuole invertire la spirale di declino in cui è impantanato il Paese, occorre applicare ricette radicali. Che poi queste rischino di ammazzare il malato, è un altro paio di maniche.
Finisca come finisca, la vicenda del prevedibilmente breve regno della Truss illumina il dilemma in cui si dibatte l’Inghilterra: come uscire dal pantano post-Brexit senza sacrificare troppo alla pace sociale, ai servizi pubblici. Ora, post festum, è diventato facile sparare sulla Truss, e ironizzare sul personaggio, messo alla berlina sui tabloid, a livello internazionale abbandonato anche da Biden; ma, con tutti i suoi limiti e la sua presunzione, Truss ha messo bene in luce che – se si rimane all’interno delle coordinate neoliberali – non si rilanciano le economie di Paesi in crisi. La sua personale ricetta, vecchiotta e di stampo reaganiano, prevedeva di premiare i ricchi e punire i poveri. Ma si comincia a profilare in tutta Europa una situazione in cui il declino dei vecchi sistemi welfariani, e le difficoltà in cui si dibattono molte delle loro economie, schiude la porta a una nuova stagione post-neoliberale, in cui si producono divisioni sociali nette e aspri conflitti per le risorse. Si può dunque irridere Truss, ma va tenuto presente che la mise en grotesque del personaggio non esime da un’analisi del contesto storico-sociale in cui ha preso forma la sua proposta, e che potrebbe apparire presto anche a noi estremamente vicino.