Qualcuno si sarà sorpreso dell’uso, in un nostro articolo (vedi qui), di un’espressione tipica del linguaggio dell’odio come “topo di fogna”, sia pure tra virgolette: “Come! Un giornale riflessivo e serio come il vostro, che intende rompere con l’andazzo linguistico della comunicazione tramite Internet e i social media, si lascia andare a un epiteto così scomposto?”. Ma stavamo facendo una citazione dagli anni Settanta, un decennio in cui le parole forti, in particolare nei confronti dei neofascisti, erano moneta corrente. E la cosa singolare era che, almeno in parte, questo era accettato dalla stessa estrema destra. Una rivista lanciata da Marco Tarchi – ideologo del Movimento sociale italiano, poi espulso per contrasti con i dirigenti – si chiamava “La voce della fogna”, a sottolineare con ironico orgoglio, e come una rottura “rivoluzionaria”, ciò che l’appartenenza al sottosuolo designava. In questo modo, pur nell’autocompatimento a volte compiaciuto, la vicenda dei militanti neofascisti, provenienti dalla lugubre esperienza di Salò, fu una storia insieme interna ed esterna al sistema politico. Da una parte, c’era tutto il risentimento per come era terminata la guerra civile – con le fucilazioni (secondo alcuni della parte avversa perfino poche), per l’esposizione dei cadaveri a testa in giù a piazzale Loreto, con un certo numero di epurazioni, e così via. Dall’altra, però, c’era una proterva volontà di stare nel gioco politico secondo lo slogan “né rinnegare né restaurare”. Così il neofascismo doveva essere veramente qualcosa di nuovo, pur nella continuità con il passato, la cui rivendicazione era racchiusa nel simbolo di quella fiamma tricolore che, secondo alcune interpretazioni, sorgeva dalla tomba di Mussolini.
Superfluo dire che l’obiettivo fu largamente raggiunto. Non solo il Msi non fu mai messo al bando (come richiesto a più riprese da associazioni partigiane, partiti e gruppi della sinistra), ma addirittura i suoi voti in parlamento furono determinanti in un certo numero di passaggi. Senza neppure riferirsi alla complicata e breve vicenda del governo Tambroni del 1960, che innescò quasi una ripresa della guerra civile, basti pensare che il presidente della Repubblica Leone, nel 1971, fu eletto con l’apporto decisivo dei voti missini. Ciò a segnalare una strutturale incapacità, o non volontà, da parte della Democrazia cristiana, o di alcune sue correnti, di evitare di ricorrere al “soccorso nero” sotto il peso delle proprie beghe interne.
Al tempo stesso – insieme dentro e fuori dal partito di estrema destra, o ai suoi margini (si pensi a uno come Pino Rauti, che entrava e usciva dal Msi a seconda delle circostanze) – i gruppi neofascisti più estremi presero parte attivamente alla “strategia della tensione”, cioè agli attentati terroristici che avevano l’intenzione di seminare il panico e preparare il terreno per un colpo di Stato; mentre i militanti di più stretta osservanza missina preferivano lo scontro di piazza con le formazioni della sinistra radicale dell’epoca, quando non proprio con le stesse forze dell’ordine. Tutto ciò doveva servire – fomentato o coperto, come oggi sappiamo con certezza, dall’interno dell’apparato dello Stato, dai servizi cosiddetti deviati – ad accreditare la tesi degli “opposti estremismi”, già prima che un terrorismo di estrema sinistra effettivamente si palesasse, così da essere un robusto supporto a una politica immobilistica e di centro come quella dei governi di allora, imperniati sul predominio della Dc che, nel caos dei Settanta, si ergeva a partito dell’ordine e del progresso.
Tutto cambia negli anni Ottanta, con l’indebolirsi delle lotte sociali, e poi nei Novanta, con il dopo Tangentopoli. Nello sconvolgimento del quadro politico prodotto dai procedimenti per corruzione, il Movimento sociale, molto meno coinvolto di altri nel malaffare, si presenta come un partito ultraconservatore, che punta a ereditare una parte dei voti della Dc. Cosa che gli riuscirà nettamente nel 1994, avendo cambiato il nome in Alleanza nazionale ed essendosi alleato con il nuovo partito aziendale di Berlusconi. Qui sta propriamente la svolta postfascista: in parte voluta dalla segreteria di Fini, che puntava a una sorta di conservatorismo liberale; e in parte determinata dalla opportunità offerta dal berlusconismo, questo nuovo populismo mediatico e privatistico, che inizia proprio con lo sdoganare i neo(post)fascisti.
Si arriva infine, dopo vicissitudini varie, a Fratelli d’Italia che nella sostanza si caratterizza come un tentativo di sottrarsi alla pur confortevole morsa del berlusconismo che, nel momento del suo massimo trionfo, tendeva a totalizzare il gioco politico. La resurrezione della “fiamma” significa anche che gli ex topi possono essere adesso orgogliosi della loro storia nella Repubblica – e soprattutto che possono rivendicare una propria autonomia nei confronti di Berlusconi e della sua visione “proprietaria” della politica. C’è anche un altro aspetto della faccenda: con la ripresa di un’organizzazione autonoma, nel 2012, il postfascismo ha intercettato quel vento di mutamento che ha investito, da anni, l’estrema destra europea, che ovunque si è riciclata (pardon, trasformata) in qualcosa di differente dal passato – in un sovranismo euroscettico e in una sorta di nuovo peronismo.
Giorgia Meloni, che si sta scontrando ora con le pretese e i ghiribizzi del vecchio dominus del centrodestra, ha dichiarato con fermezza di non essere ricattabile. Però è venuto fuori che il suo compagno è un dipendente di Mediaset. Allora, fino a che punto può permettersi di non esserlo? E ancora: fino a che punto potrà fare il viso duro in Europa, considerando i non pochi restanti soldi che l’Italia deve ricevere dall’Unione europea?