Cinque anni fa Xi Jinping, in occasione della sua precedente elezione a segretario, insieme con la costellazione di cariche e titoli aggiuntivi a quella centrale di segretario del partito, pretese di essere indicato anche come timoniere della strategia Internet del Paese. Apparentemente, solo un orpello ulteriore: in realtà si sanciva che la Repubblica popolare si identifica con il concetto di algoritmo-nazione. Ossia che il potere e la sovranità del Paese sono strettamente connessi alla capacità di governare e sviluppare la potenza tecnologica, sia nella versione relazionale –controllare la rete interna – sia in quella incrementale, che consiste nell’innovare l’innovazione, come ricorda nel suo saggio sul tema, L’arco dell’impero (edito da Leg), il generale cinese Quiao Liang, che appunto sostiene che, se è Internet a fare la storia, è proprio la capacità di creare nuova innovazione a determinare una gerarchia nella storia.
Nella sua relazione di apertura al ventesimo Congresso, iniziato domenica 16 ottobre, il leader cinese, che si avvia a essere riconosciuto come capo in eterno, ha confermato questa priorità. Tanto più dopo la sonora lezione a cui ha assistito in Ucraina, dove il suo – sempre in maniera più fredda e distaccata – alleato Putin ha patito la superiorità sociale, prima ancora che tecnica, dell’uso delle intelligenze e delle memorie artificiali da parte dell’Occidente.
Il nodo che Xi Jinping ha posto nella sua secca relazione (la metà delle tre ore e mezza di cinque anni fa, segno che non ci sono più attriti da appianare) è proprio l’autonomia del Paese nello sviluppo tecnologico, che la Cina ancora non ha raggiunto, soprattutto nella produzione di chip ad alte prestazioni, che deve garantire a Pechino il rango di grande potenza oggi, e di Paese guida fra vent’anni. In questa logica, la nota dolente di Taiwan assume una valenza diversa dalle tradizionali rivendicazioni nazionalistiche.
Certo, proprio mentre chiede di essere equiparato al perdurante mito di Mao nella sua eternità al potere, Xi deve creare l’aspettativa di essere l’uomo che completa la fondazione della nuova Cina, che il grande timoniere proclamò il primo ottobre del 1949, integrando Taiwan. Ma con il pragmatismo che i cinesi riescono sempre a riempire con ispirate metafore globali, l’isola, più che rispondere alla storica rivendicazione di unità nazionale, diventa oggi la fabbrica di microchip a elevate prestazioni, che manca alla filiera tecnologica di Pechino. Una filiera che, come dicevamo, non è solo l’emblema di una potenza geopolitica, ma anche il tassello che oggi tiene insieme l’intera infrastruttura del potere statuale nel Paese più popoloso del mondo. Infatti Xi finora ha governato il processo di sviluppo economico, con l’inevitabile spinta centrifuga di forze che, acquisendo autonomia e ambizione individuali, spingono per avere spazio o comunque anche riconoscimenti a livello politico – sempre nel codice cinese, che separa l’influenza decisionale dalla rappresentanza istituzionale. Questo snodo – la differenza fra la possibilità di contare a livello territoriale, persino di influenzare le decisioni nazionali, e invece la rinuncia a farsi rappresentare autonomamente al vertice del Paese – che mise in crisi il tentativo di modernizzazione dell’Urss di Gorbaciov, è stato reso possibile in Cina proprio da quella versione di sviluppo tecnologico, che ha fatto coincidere il successo e l’emancipazione individuale, o aziendale, con il massimo di controllo e dominio da parte del partito.
Ora, i vertici cinesi sanno bene che la tecnologia, a differenza degli apparati industriali del secolo scorso, è una base “liquida”, per dirla con Baumann, un flusso e non un’infrastruttura, qualcosa che muta ogni momento, riconfigurando equilibri e primati. Per questo Xi deve costantemente innovare l’innovazione, dimostrando al mondo – lo ha detto esplicitamente nella sua relazione – “un altro modo per raggiungere lo sviluppo”.
Un modo che – questo rimane il dilemma che ancora sembra tenere sospesa la leadership di Pechino – deve comunque fare i conti con la partnership occidentale, sia per la spinta finanziaria sia per le sollecitazioni scientifico-tecnologiche che rendono la piattaforma cinese un sistema competitivo e vitale. Senza quell’innesto di visioni e irrequiete tensioni, la Cina rischia, com’è accaduto nel passato, di sedersi sulle proprie innovazioni. Da qui la riflessione silenziosa sulla guerra. La mancanza, nella relazione del segretario generale, di un qualsiasi accenno al conflitto, e tanto meno di un accento di solidarietà e supporto a Putin, ci fa intendere che il dibattito sia aperto e che comunque proprio Xi non voglia minimamente impiccarsi alle improvvisazioni del suo vicino russo. A maggior ragione dopo quanto ha visto nella conduzione della guerra, in cui si è assistito a un fallimento del sistema militare e tecnologico di Mosca, e alla evidente supremazia sociale, nell’uso delle forme digitali, da parte dell’Occidente.
La natura e le conseguenze della tecnologia sono l’altra incognita che pesa sul mandato politico di Xi. Proprio Quiao Liang, citato all’inizio di questo articolo, spiega che Internet, nel momento in cui riprogramma la storia, determina un’inesorabile spinta al decentramento. Questa spinta viene considerata, dal generale cinese, come una delle cause della crisi di egemonia del potere statunitense, ma inevitabilmente – a maggior ragione, dato il carattere verticale e più rigido della governance cinese – rappresenta una minaccia anche per il dominio politico del regime di quel Paese. La qualità dell’innovazione diventa così un parametro politico a tutto tondo. Pechino ha constatato che non basta adottare e rieditare le soluzioni della scienza e della tecnica dell’Occidente, ma bisogna dare una fisionomia, fin dalla fase progettuale e prototipale all’intelligenza artificiale per renderla coerente con un modello di governabilità. Su questo la partita rimane aperta. E perfino l’Europa avrebbe uno spazio per articolare le forme del confronto globale fra le due super-potenze.