In un alto consesso senatoriale un ex “topo di fogna” (ma poi davvero ex?) si candida alla presidenza; alcuni suoi antichi sodali si smarcano per ripicca, non lo votano; e allora interviene in soccorso una pattuglia di vermi che lo fa eleggere. Un film di ordinario trasformismo? Nella sostanza sì. Ma viene in mente questo, in aggiunta: il Partito democratico non è mai uscito dalla sua renzizzazione. Anzi, la “renzata” – cioè la manovra parlamentare che porti a un governo tecnico o di “larghe intese” – è ormai parte integrante della sua non-identità. Che poi ha un nome preciso: quello di Dario Franceschini. Fu lui, fin dall’inizio della infausta vicenda, tra quelli che vollero un partito senza ideologia e senza identità – di fatto, un agglomerato di personalismi e potentati. E fu anche lui, con la sua corrente, a essere il primo sostenitore di Renzi alla segreteria del Pd (salvo poi pentirsene).
Non si tratta solo di uno stile democristiano, sebbene questo indubbiamente abbia un peso, dato che i “franchi tiratori” erano un’istituzione nel partito cattolico; si tratta, purtroppo, di qualcosa di peggiore. L’essere “vermi” è parte di una egemonia berlusconiana sulla politica italiana, che dura da trent’anni, nonostante l’irreversibile declino del vecchio patriarca. Il Pd, nelle intenzioni dei suoi fondatori, doveva essere una specie di Forza Italia “di sinistra”: lo dichiarò un suo teorico, se così possiamo chiamarlo, Michele Salvati, e cominciò con il concretizzare la cosa Walter Veltroni. Ora, dato che un gruppo di potere univoco, imprenditoriale e mediatico, come quello che stava alle spalle della Forza Italia originaria, non c’era, il Pd risultò subito quel partito che non è né carne né pesce, pronto perciò a qualsiasi forma di compromissione. Tentò – è vero – una qualche sterzata la segreteria Bersani, però il diavolo ci mise lo zampino (in quel momento si chiamava “gruppo Grillo-Casaleggio”, un aggregato non meno privatistico di Forza Italia, ma con una capacità di trascinamento dello scontento popolare), e Bersani, non avendo veramente vinto le elezioni, dovette passare il testimone appunto a… Renzi.
Ma si ricordi come andò la cosa con la rielezione alla presidenza della Repubblica di Napolitano, in quello stesso frangente. Bersani si dovette dimettere dalla segreteria anche perché un centinaio di “grandi elettori” del suo partito, che il giorno prima aveva convenuto di sostenere la candidatura di Prodi all’alta carica, si defilò, nel segreto dell’urna, impedendone l’elezione. Il Pd probabilmente è finito in quel momento. Quello che vediamo attualmente è il suo ectoplasma, che accorti vermi tengono in vita per i loro giochini.
È vero, ci eravamo illusi che il Pd, da ultimo, potesse ancora funzionare, quasi suo malgrado, come nerbo di un’alleanza in grado di competere con le destre. Non l’ha fatto, non ha voluto e non ha saputo farlo, e le scorse elezioni sono andate come sono andate. Ora apprendiamo che la sua anima renzizzata è disponibile a ulteriori “larghe intese”. Si poteva credere che potesse accingersi a lavorare in parlamento per arrivare a mettere fuori se non altro Fratelli d’Italia, perché, nonostante sia il partito di maggioranza relativa, una ipotesi di governo alternativo, numericamente, ci sarebbe… Ma se “larghe intese” devono essere – anche con i postfascisti, perché no? La sparuta delegazione parlamentare del duo Calenda-Renzi da sola però non ce la può fare. Ha bisogno di trascinare con sé almeno una parte del Pd. Ed è il movimento parlamentare a cui assisteremo nei prossimi mesi se non nei prossimi giorni.