L’attualità internazionale di Cristoforo Colombo sta nella sua nuova sconfitta, dopo quella subita negli intrighi di corte a Madrid, oltre mezzo millennio addietro. I monumenti che negli ultimi due secoli gli avevano eretto lungo il continente americano, da Buenos Aires a New York, sono stati rimossi o distrutti dalla chiassosa retorica della cancel culture. Come se questa, di per sé, potesse mai amnistiare i delitti della conquista (non della “riscoperta”) e risarcisse i discendenti delle innumerevoli vittime. La vendicativa negazione della gloriosa, sebbene accidentale, avventura del navigatore genovese racchiude, in realtà, altrettanto accidentalmente la storia dei diritti universali dell’uomo (a partire dalla Dichiarazione del 1948) e la crisi in cui versano oggi, a 530 anni dall’approdo delle tre caravelle sulle sponde dell’estremo Occidente, il 12 ottobre 1492.
Dalla Colombia al Brasile, al Cile, all’Argentina, al Messico – in tutta l’America latina, ma anche negli Stati Uniti –, la questione etnica è un nodo cruciale del groviglio sociale e politico che insidia le rispettive integrazioni nazionali e frena lo sviluppo economico. Il voto afro, latino e dei nativi è uno spazio in cui l’attuale governo di Biden si gioca le prossime, decisive elezioni parlamentari di metà mandato. In Cile, all’inizio del settembre scorso (vedi qui), la bocciatura della nuova Costituzione ha scosso l’intero sistema politico, e costretto il presidente Boric a fare un rimpasto di governo, a riavviare l’intero processo costituente. L’analisi del risultato referendario ha identificato, tra i più diffusi motivi del rifiuto, i diritti concreti che la Carta riconosceva ai popoli originari, essenzialmente costituiti dalle varie famiglie araucane.
L’opposizione libertà/autorità, un dualismo di principio che in Occidente permane vivo dai tempi dell’Illuminismo, trova infine concreta sintesi grazie ai diritti culturali, di proprietà e di autonomia amministrativa, almeno formalmente riconosciuti ai differenti popoli indigeni in diversi Paesi del subcontinente. In un Cile sempre più turbato dai gesti insurrezionali degli araucani, nel Sud del Paese, già la seconda presidenza Bachelet (2014-18) aveva costituzionalmente sancito l’originalità storica di quella minoranza precolombiana, e il suo diritto a una propria diretta rappresentanza al Congresso. Ma la mancata implementazione del provvedimento di legge, nel successivo quadriennio del presidente conservatore Piñera, l’aveva sospinta ai margini del dibattito nazionale. Riproposta al massimo livello dalla nuova Costituzione, un’opposizione politica trasversale è uscita allo scoperto, denunciando come un illecito privilegio quella che era stata concepita come la riparazione a una secolare ingiustizia e un atto di necessaria pacificazione.
Analogo, e altrettanto drammaticamente tuttora in svolgimento, è il conflitto tra lo Stato centrale e gli indigeni della Patagonia argentina, che non accettano più di vivere da emarginati sulle terre ancestrali ritenute proprie. Appartengono a distinti gruppi del medesimo ceppo etnico dei loro consanguinei cileni, e come quelli non riconoscono le frontiere politiche tracciate dalla modernità statuale che li ha separati. La comunità Lof Lafken Winkul Mapu, insediata da secoli in una zona divenuta ormai uno dei centri turistici più noti e affollati del Paese, Bariloche, organizza periodicamente occupazioni di terre, stavolta violentemente contrastate dalle ingenti forze di polizia inviate dal governo di Buenos Aires. Sono intervenute a difenderla le organizzazioni per i diritti umani, e la ministra per lo Sviluppo sociale si è dimessa per protesta.
In un Paese di diffusissimo meticciato come il Brasile, il centro geografico della vertenza etnica è l’Amazzonia. Gli scontri, anche per l’immensa vastità della zona, lì sono frequenti, ma per lo più isolati e senza testimoni diretti accessibili all’informazione. La politica di sfruttamento estensivo della massima foresta pluviale del mondo, portata avanti dal presidente Bolsonaro, vi ha richiamato i grandi allevatori, che tagliano gli alberi per lasciare pascolare liberamente il loro bestiame. Costringendo così gli indigeni a ritirarsi sempre più verso l’interno. Favorendo la penetrazione di cercatori d’oro clandestini, bracconieri di animali pregiati, avventurieri disposti a trasformarsi in killer al soldo dei nuovi padroni della selva. È da questo ambiente che, nel giugno scorso, sono usciti gli assassini del giornalista britannico Dom Phillips e della sua guida, Bruno Pereira, notissimo difensore degli indios e dei loro diritti (vedi qui). Entrambi stavano indagando sulle appropriazioni illegali di terre nella valle del Javarì, ai confini con la Colombia e il Perù.
In una simile congiuntura storica, perseguire le “colpe” di Colombo appare quanto meno pretestuoso e fuorviante, per simbolico che voglia essere. E gli eccessi di qualche spezzone della popolazione indigena, senz’altro da circoscrivere, sono scompostezze sostanzialmente innocue. Mentre continuano a ferirla, ogni giorno, le discriminazioni che ancora la colpiscono, rinviando il riconoscimento di diritti già statuiti. Com’è a tutti arcinoto, ancor prima di trovarci a convivere con un virus pandemico e una guerra d’invasione in Europa, ben altri sono i pericoli che si trova di fronte il nostro pianeta (basti pensare agli ormai quasi dimenticati accordi di Parigi sul clima). Altri sono gli antagonismi della nostra modernità. E solo il pieno rispetto della Convenzione interamericana dei diritti umani (1969) potrebbe rendere più democratica la vita sociale latinoamericana.