Di un fondo anticrisi finanziato con debito comune europeo, per fare fronte a determinate emergenze, si parla da molti anni. Già a marzo, in un vertice a Versailles subito dopo lo scoppio della guerra, se n’era nuovamente discusso, ma poi si era rinunciato ad attivarlo per la risoluta opposizione di Germania e Olanda. Christian Lindner, ministro delle Finanze tedesco, aveva sostenuto, senza mezzi termini, che il sostegno all’Ucraina “è indipendente da un dibattito sugli strumenti di finanziamento”, e che “la responsabilità congiunta attraverso l’emissione di obbligazioni comuni non è al momento all’ordine del giorno”.
Il debito comune europeo è da sempre una questione spinosa, dato che si tratta in pratica di trasferire debiti contratti dai singoli Stati sulle spalle dei contribuenti di altri Paesi. Non a caso, lo schieramento dei “Paesi frugali” è sempre stato contrario. Angela Merkel, a suo tempo, era estremamente scettica al riguardo, e aveva sostenuto che non sarebbe mai arrivata a vederlo realizzato, anche se poi è stato proprio su suo impulso che sono stati stanziati dalla Unione europea circa 750 miliardi di euro, tra trasferimenti e prestiti, per la pandemia. Certo, si è trattato in quel caso di una misura eccezionale e temporanea, di una una tantum, ben lontana dall’istituzione di un fondo stabile e regolarmente alimentato. La questione si è riproposta ora con la crisi energetica, frangente in cui i Paesi membri si sono ancora una volta mostrati su posizioni diverse.
In particolare, ad agitare le acque a Bruxelles è stata la decisione della Germania di stanziare 200 miliardi di euro per difendere consumatori e aziende dai rincari di gas ed energia elettrica. La decisione tedesca ha allarmato gli altri Paesi dell’Unione, dato che – dotati come sono di minori risorse fiscali da impiegare al medesimo scopo – temono che la loro industria possa patire la concorrenza di quella tedesca ampiamente protetta e foraggiata. La stessa presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, ha dichiarato che la mossa tedesca di approntare un Abwehrschirm, un parapioggia economico anticrisi nazionale, rischia di avere come sua conseguenza una frammentazione del mercato comune, introducendo preoccupanti linee di frattura. Così, nei giorni scorsi, alcune sortite pubbliche di Paolo Gentiloni e di Thierry Breton hanno rilanciato il dibattito sulla questione del debito comune. Questo il contesto in cui si è tenuto un vertice informale dei Ventisette a Praga, in cui si è discusso della possibile attivazione del fondo.
Olaf Scholz, che inizialmente si era mostrato recisamente contrario, pare abbia fatto trapelare ora una certa disponibilità a ripensare la posizione tedesca, almeno secondo quanto riferisce l’agenzia Bloomberg, anche se il suo intervento piuttosto sibillino è stato diversamente interpretato. In un succedersi di indiscrezioni e di smentite l’agenzia Reuters ha letto, invece, le dichiarazioni del cancelliere come una sostanziale conferma della posizione tedesca di procedere per una propria via, coerentemente con quanto avevamo già intravisto in un articolo precedente (vedi qui). Mentre la discussione continua, e Italia e Francia premono su Scholz, si profila una soluzione di compromesso: considerando che i fondi del Recovery Plan in gran parte non sono ancora stati utilizzati, il metodo che potrebbe essere eventualmente impiegato è quello di fornire garanzie agli Stati membri, in modo da dare possibilità di manovra ai singoli Paesi senza pesare sul debito nazionale, in maniera analoga a quanto è avvenuto durante la pandemia. A partire da oggi, inizieranno comunque incontri tra i ministri dell’Energia per l’attivazione di una piattaforma di acquisto comune del gas e per l’introduzione di un meccanismo di controllo del prezzo. In ogni caso, risposte certe non si avranno probabilmente prima di fine ottobre.
Se il dibattito internazionale è acceso, lo è anche quello interno tedesco: la coalizione “semaforo” è scossa da continue polemiche riguardo il modo in cui la Germania potrà superare il “terribile inverno” che si prospetta. Il governo ha parlato di un “compito gigantesco” che lo attende e – in attesa che venga definito meglio il programma di intervento da duecento miliardi nel triennio 2022-2024, di cui quasi cento dovrebbero essere spesi nel primo anno – il ministro dell’Ambiente, Robert Habeck, ha rivolto un accorato appello ai tedeschi perché contribuiscano riducendo il più possibile i consumi. Ma anche riguardo alla possibilità della creazione di un fondo comune europeo, per superare la crisi, le posizioni non sono state univoche: se i liberali si sono allineati a Scholz, ribadendo la loro contrarietà e mettendo l’accento sulla spesa fuori controllo, tra le fila dei verdi e nella stessa Spd non sono mancate voci in senso opposto. E le posizioni divergono anche su altre scelte importanti: nelle scorse settimane, la proposta dei liberali di riattivare alcune centrali nucleari ha suscitato la reazione indignata dei verdi, mentre continua a circolare nell’opinione pubblica l’ipotesi della possibile apertura del gasdotto Nord Stream 2, pronto per l’uso e mai utilizzato, su cui Putin ha rilanciato qualche giorno fa. Alcune forze politiche – come la iperconservatrice e nazionalista AfD – ne hanno fatto una sorta di cavallo di battaglia, e sono state premiate dall’elettorato nell’ultima tornata di elezioni regionali in Bassa Sassonia, raddoppiando i loro consensi, passati dal 6 all’ 11%. Un panorama interno, quindi, tutt’altro che pacificato, in cui malignamente la “Frankfurter Allgemeine”, qualche giorno fa, faceva notare che sulla crisi energetica si potrebbe giocare a breve lo stesso futuro della coalizione di governo.
Per questo insieme di motivi, la questione della creazione di un debito comune europeo sulla crisi energetica si pone come questione eminentemente politica, oltre che economica, dato che disegna una partita estremamente complessa, in cui in gioco non sono solo le relazioni tra i singoli Paesi e gli equilibri interni, ma il destino complessivo della stessa Unione, che dovrebbe sforzarsi di pensarsi finalmente, e una volta per tutte, in termini che vadano oltre le anguste prospettive liberiste.