Una sconfitta inaspettata, dettata da questo errore di comunicazione o dal quell’intento troppo radicale. Il 4 settembre scorso, il Cile ha bocciato la proposta costituzionale (vedi qui). Lo stesso Cile, tuttavia, due anni prima aveva votato in massa per un cambiamento della Costituzione. Allora, forse, si è voluto cambiare troppo: la bozza era il frutto del lavoro di un’Assemblea costituente che ha rappresentato le minoranze, i popoli indigeni, i movimenti, lasciando fuori i partiti tradizionali e la politica dell’establishment. Ma il Cile è anche il Paese dei partiti tradizionali. E le necessità di una parte della popolazione sono diventate delle questioni inascoltate durante la campagna referendaria, andando a erodere il consenso intorno alla proposta costituzionale.
All’indomani delle votazioni il presidente Boric ha esplicitato la volontà di muoversi verso un rinnovato processo costituente, aprendo al dialogo con i rappresentanti delle parti politiche. La sua prima mossa è stata quella di un rimpasto di governo, indispensabile per andare incontro alle suddette necessità. È chiaro che il nuovo processo prenderà le mosse dal testo costruito nella Convenzione: non va certo messa da parte l’esperienza accumulata, come non vanno dimenticati i movimenti e le iniziative popolari, ripartendo così dalle rivendicazioni del 2019. Ma quello che è mancato è stato un di più di tecnica politica.
La sconfitta non implica la rinuncia alla voglia di cambiamento espressa dal popolo negli ultimi anni e, di conseguenza, la risposta del governo non è stata uno spostamento politico a destra. Nonostante la bocciatura, infatti, otto cileni su dieci – a prescindere da come abbiano votato – sostengono la proposta di un’università gratuita e la difesa dell’acqua come bene pubblico, liberamente accessibile. Sette su dieci vogliono lo Stato di diritto sociale e democratico, un sistema partecipativo e inclusivo, nonché il riconoscimento costituzionale dei popoli indigeni. Sei su dieci vogliono un sistema pensionistico pubblico e sono favorevoli al diritto all’aborto. I cileni quindi aspirano a un cambiamento: sta alla Convenzione trovare il giusto equilibrio.
Sono in corso negoziati tra i partiti e il governo per concordare il quadro in cui si svolgerà un nuovo processo costituente in Cile. Dall’urgenza dei primi giorni, in cui tutti gli attori hanno esortato a chiudere un accordo in meno di due settimane, si è passati a incontri e colloqui distanziati nel tempo, in modo da permettere al governo e alle forze di opposizione di valutare la migliore opzione per favorire l’elaborazione di una nuova proposta in grado di raccogliere il massimo dei consensi.
Dopo diversi round di trattative – e a più di un mese dal referendum – non c’è però ancora accordo sui cosiddetti limiti nel lavoro dell’Assemblea costituente, né sui principi generali che dovrebbero regolare il nuovo processo: quale organismo redigerà la Carta? Ci sarà o no la partecipazione di persone esperte, oltre che dei rappresentanti eletti? Si prevede l’ingresso dei cittadini nel processo di costruzione della bozza? Ancora non ci sono risposte da parte del governo, che per ora si è limitato a una serie di dialoghi. “Senza principi organizzativi, è molto difficile per i cittadini percepire che questo processo è diverso da quello che è fallito completamente il 4 settembre” – ha dichiarato il senatore Javier Macaya, presidente dell’Unione democratica indipendente, partito di destra.
Gabriel Boric ha auspicato un processo costituente “con margini più netti” del precedente, che parta da una pagina bianca, seppure con limiti diversi da quelli proposti dalla destra. L’idea dei “margini di azione” per la Costituente è stata presentata, due settimane fa, dalla destra, sottolineando come, per garantire la buona riuscita del processo, occorra dare un chiaro mandato su ciò che può o non può essere affrontato nella stesura del testo, evitando così ogni tentativo di rifondazione del Paese. Benché la sinistra la consideri una limitazione, con il passare dei giorni, essa ha cominciato a soppesare l’idea. “Non intendo delineare come i membri del Congresso debbano raggiungere il contenuto di questo accordo”, ma “ci sono cose ovvie; per dirne una: il popolo cileno ha votato a maggioranza nel plebiscito del 2020 per una nuova Costituzione, scritta da un corpo eletto ex novo a tale scopo” – ha affermato il presidente.
Nei negoziati si discute del futuro: le coalizioni politiche ancora non hanno fissato i minimi comuni, anche se vi sono segnali di accordo affinché il nuovo testo venga redatto da un organismo paritetico, eletto regolarmente, accompagnato da una commissione di esperti, i quali potrebbero quindi rivestire un ruolo di maggiore importanza rispetto al precedente mandato. Non c’è accordo sui limiti: mentre per la Dc e i rappresentanti della sinistra dovrebbero essere minimi, l’Unione democratica e il resto della destra puntano su un’estensione dei limiti stessi, rimanendo fermi, per esempio, sulla permanenza del Senato, che nel testo respinto era stato eliminato. Tutti sono invece d’accordo sul fatto che la futura Carta stabilisca che il Cile è uno Stato unitario, chiarendo così la questione della plurinazionalità; c’è accordo anche sulla libertà di religione e sul diritto di proprietà; infine sull’autonomia dei tre poteri dello Stato, che potrebbe far finire nel dimenticatoio l’idea di un sistema giudiziario indigeno.
Tre anni fa, il Cile si confrontava con la decisione di aumentare di trenta centesimi il biglietto della metropolitana; oggi ci si confronta piuttosto con il tentativo di imprimere una svolta definitiva, cambiando la Costituzione frutto della dittatura sanguinosa di Pinochet. Il nuovo processo costituente dovrà essere più largo e rappresentativo della politica tradizionale. Cercando di riconquistare la fiducia dei cileni, dovrà riconoscere le richieste dei movimenti che hanno occupato le strade di Santiago nel 2019, e al tempo stesso non dimenticare quelle del resto del Paese. Il lavoro di bilanciamento, come si è visto, non è facile.