C’è una guerra, tra le tante combattute dagli americani, che dura da più di cinquant’anni. Fu dichiarata nel 1971, dal presidente di allora, Richard Nixon; e in tutti questi anni è costata milioni di vite umane e incalcolabili sofferenze, una volta tanto tutte americane. È la war on drugs, la guerra alla droga. L’avvento, nel 1969, di un presidente repubblicano (e reazionario nel senso più letterale del termine) avrebbe dovuto chiudere, nelle intenzioni sue e di chi lo aveva eletto, la partita con gli anni Sessanta, quelli della contestazione, del movimento dei diritti civili, della protesta contro l’altra guerra, quella vera del Vietnam, della musica rock e, appunto, della “droga”.
Ancora all’inizio del Novecento, “droghe” erano soprattutto l’oppio e la cocaina – ed erano legali. Le fumerie d’oppio, nelle grandi città con quartieri cinesi, erano frequentate da persone di ogni ceto sociale. L’eroina – una nuova invenzione della Bayer – era considerata un farmaco antitosse, e poi usata per combattere la dipendenza da cocaina. Negli anni successivi, iniziò il movimento proibizionista: prima nei confronti della cocaina e dell’oppio, poi, nel 1918, nei confronti di tutti gli alcolici. Nel 1961, entrò in vigore la Convenzione sulle droghe narcotiche, che classificava la cannabis tra le sostanze più pericolose. Nel 1970, Nixon fece approvare una legge contro l’uso degli stupefacenti e nel 1971 lanciò la sua guerra alla droga, con una serie di durissime norme penali per “reprimere e sradicare” il fenomeno come parte della sua più generale guerra contro il crimine, affidando la parte dell’educazione dei giovani alla moglie Pat.
All’epoca, negli anni Settanta, c’era una netta distinzione generazionale e di classe nell’uso delle droghe. La cocaina era usata – considerato il suo costo – soprattutto dai ricchi e dai professionisti, e serviva per lo sballo del fine settimana. I giovani hippy usavano soprattutto la marijuana, “Mary Jane”, importata dal Messico, assieme con le gonne lunghe e i cinturoni con le fibbie d’argento, e con le collanine di vetro. Anni prima un chimico e guru californiano, Timothy Leary, aveva inventato l’Lsd, l’acido lisergico, che prometteva di “aprire la mente” e di entrare in contatto con l’universo attraverso le visioni psichedeliche. Lsd e marijuana erano le droghe dei giovani contestatori; cocaina e oppiacei dell’establishment bianco; eroina e poi crack la droga dei poveracci, bianchi e neri, che ne morivano.
Biden aveva 29 anni quando, nel 1972, fu eletto per la prima volta senatore del suo Stato, il Delaware. La sua base elettorale era costituita da operai e minatori che votavano ancora prevalentemente per il partito democratico, ma avversavano i movimenti di protesta giovanili, e soprattutto erano contro le droghe di ogni tipo. Biden, come molti democratici, aderì fin da subito alla guerra contro la droga di Nixon, facendosi promotore di proposte di legge ancora più restrittive per tutto il corso dei suoi sei mandati senatoriali (trentasei anni). Poi, durante la presidenza di Barack Obama, di cui fu per otto anni vicepresidente, la sua posizione cambiò – e gradualmente prese atto che la guerra alla droga era stata un fallimento: non solo non aveva frenato il fenomeno del consumo, ma l’aveva “combattuto” con risvolti decisamente razzisti, incarcerando soprattutto neri e ispanici, colpendo con durezza il consumo della tutto sommato innocua cannabis, mentre veniva ignorata l’esplosione della letale pandemia di oppioidi sintetici.
Nonostante che, con il passare degli anni, ci si fosse resi conto della scarsa pericolosità della cannabis (minore peraltro dell’uso del tabacco e degli alcolici) e un numero crescente di Stati l’avessero legalizzata per uso ricreativo o medico, la guerra continuò, producendo danni sociali incalcolabili. Nel solo decennio tra il 2000 e il 2010 vennero incarcerati e condannati oltre otto milioni di consumatori, colti a “fumare” o con pochi grammi di sostanza, lasciando una macchia permanente sulla fedina penale, che avrebbe reso difficile trovare lavoro, contrarre un mutuo e perfino votare. Inoltre, le condanne colpivano (e colpiscono) in maniera sproporzionata neri e ispanici, con tutte le storture del sistema giudiziario: un ragazzo bianco, i cui genitori possono permettersi un buon avvocato, viene assolto con una ramanzina; un nero, che ha un difensore d’ufficio, viene mandato in galera per lunghi mesi, o anni, se imputato di spaccio.
Anche Biden si è reso conto di questa profonda ingiustizia, oltre che del fallimento della “guerra dei cinquant’anni”, e ha deciso di “perdonare”, cioè di concedere la grazia, ai condannati per uso di marijuana. L’aveva promesso in campagna elettorale, e se si è deciso soltanto adesso: senza dubbio, l’ha fatto anche nella speranza di trarne qualche vantaggio per le sorti traballanti del suo partito nelle prossime elezioni. È la terza mossa in questo senso negli ultimi due mesi, rivolta a fasce tradizionali dell’elettorato democratico: prima l’intervento per la riduzione del prezzo dei farmaci (anziani), poi la cancellazione dei debiti contratti per le spese universitarie (giovani), ora la depenalizzazione della marijuana e la scarcerazione dei condannati (neri, ispanici, giovani).
In realtà, quest’ultima mossa sulla droga è soprattutto simbolica, dal momento che si applica unicamente a livello federale e nel Distretto di Columbia; ed è stato calcolato che solo 6.500 detenuti nelle carceri federali potrebbero beneficiarne (potrebbero, perché molti vi si trovano anche per altri reati e non verrebbero comunque scarcerati). Nelle prigioni statali, invece, i detenuti per consumo di marijuana sono diverse centinaia di migliaia. È per questo motivo che, nel suo annuncio accorato (e anche implicitamente autocritico), Biden ha invitato i governatori degli Stati a seguire il suo esempio: a liberare i detenuti e a cancellare la macchia sulla loro fedina penale. Ha anche annunciato che il governo federale è impegnato a rivedere la classificazione delle droghe, espungendo la cannabis dal gruppo di quelle più pericolose. (Del resto, già nel 2019, l’Organizzazione mondiale della sanità aveva invitato gli Stati membri a rivedere la loro legislazione sulla cannabis, riconoscendone la possibile utilità medica.)
È probabile, quindi, che dopo questa decisione, per quanto simbolica, qualcosa si muoverà. Del resto già trentotto Stati su cinquanta consentono l’uso della cannabis a scopo terapeutico, di questi diciannove anche per uso ricreativo. Nonostante i candidati repubblicani alle prossime elezioni abbiano attaccato duramente la decisione del presidente come una mossa “propagandistica e pericolosa”, alcuni recenti sondaggi dicono che il 70% degli americani è favorevole alla liberalizzazione della marijuana, e lo è anche il 50% degli elettori repubblicani. Una volta tanto, sarebbe il caso che l’Europa seguisse l’esempio dell’America.