Non conosce pace la patria di Tomas Sankara (vedi qui l’articolo del 25 ottobre 2021). Il 4 ottobre scorso, in Burkina Faso, c’è stato un colpo di Stato con tanto di occupazione della stazione televisiva e radiofonica Rtb, mentre il parlamento è stato sciolto e la Costituzione sospesa. Un secondo golpe – dopo solo otto mesi – che non fa che destabilizzare ancor più uno dei Paesi più poveri del mondo. A farne le spese, questa volta, è stato il tenente colonnello Paul-Henri Sandaogo Damiba che, nello scorso gennaio, aveva a sua volta deposto il presidente eletto Roch Kaboré. L’ex capo di Stato, che non ha opposto resistenza contro i golpisti, ha lasciato il posto al nuovo uomo forte del Paese africano. Quel capitano Ibrahim Traoré che ha accusato il suo predecessore di incapacità nel fare fronte alla crescente forza dell’estremismo islamico, vera e propria piaga biblica nel Sahel e in molti Paesi africani. Una situazione che ha causato due milioni di sfollati (circa il 10% della popolazione), e la morte di oltre tremila persone da inizio anno (già un terzo in più rispetto al 2021).
La goccia che ha fatto traboccare il vaso – e ha dato l’occasione a Traoré per destituire il suo predecessore – è stata, lo scorso 26 settembre, l’imboscata tesa a un convoglio di viveri, con la scorta militare, diretto a Djibo, nel Nord del Paese. Pesantissimo il bilancio: undici soldati morti, ventotto rimasti feriti, decine di civili dispersi, camion incendiati, e il conseguente isolamento di Dijbo, ormai ridotta alla fame sotto l’assedio jihadista. Del resto il bilancio delle vittime, tra civili e militari, negli ultimi otto anni (in Burkina Faso, Mali e Niger), si è triplicato.
In particolare a Ouagadougou, la capitale del Paese, e nei suoi dintorni, la progressione dell’attività dei gruppi armati è impressionante. Nel 2018 in Burkina Faso si sono registrati 253 attacchi, diventati 643 nel 2019 e oltre 1.300 nel 2021. Secondo l’organizzazione non governativa Armed Conflict Location & Event Data Project, che raccoglie e analizza dati sulle crisi nel mondo, nel 2022 le cose stanno andando ancora peggio. “Dietro molti degli attacchi che hanno costretto oltre un milione e 500mila persone a fuggire dalle loro case – dice Franca Roiatti, giornalista della testata “Osservatorio diritti”, scrittrice e africanista – c’è il Jama’at Nasr al-Islam wal Muslimin’s (Jnim), un gruppo armato nato in Mali, nel 2017, dall’unione di Al Qaida nel Maghreb islamico e altre formazioni locali, che si contende il controllo del territorio con lo Stato islamico nel grande Sahara (Isig)”.
L’altra ragione per la quale Damiba è stato destituito riguarda la cooperazione con la Francia, in un clima di crescente ostilità nei riguardi dell’ex potenza coloniale. Nei giorni scorsi, c’è stato un assalto all’ambasciata francese dopo la notizia – tutta da verificare – di una protezione che la Francia avrebbe dato a Damiba in una base militare. La ragione di tanta avversione è il venir meno dell’impegno dei francesi nel fronteggiare il terrorismo. Il nuovo governo ha così deciso di guardare altrove; e non è un mistero per nessuno che, in Burkina Faso come in Mali, (vedi qui l’articolo del 21 dicembre 2021), dove da dieci anni si assiste al rafforzamento dei gruppi jihadisti, così come in altri Paesi, la Russia abbia preso il posto degli ex colonizzatori.
La stessa cosa è avvenuta a Bamako, a partire dallo scorso febbraio, quando il presidente Macron ha annunciato il graduale ritiro delle truppe francesi, togliendo così quel supporto necessario nella lotta contro i gruppi armati. Al loro posto, sono arrivati i meno affidabili uomini del gruppo paramilitare Wagner (vedi qui l’articolo del 25 febbraio 2022), di fatto legatissimo al ministero della Difesa russo, fondato dall’inquietante Dmitrij Utkin, ex militare con simpatie neonaziste.
Secondo un rapporto di Global Initiative against Transnational Organized Crime, organizzazione che studia il crimine organizzato, “i terroristi fanno leva sul risentimento verso le autorità. L’avanzata dello Jnim si basa, dunque, in buona parte sulla capacità del gruppo di sfruttare le attività economiche illecite non soltanto per finanziarsi, ma per ottenere il consenso delle comunità locali. Quando gli affiliati allo Jnim arrivano in una nuova località – osserva il rapporto – in cambio di aiuto, propongono ai giovani un fucile, una moto o una bicicletta e un po’ di soldi, un’offerta allettante per chi spesso non ha altre opportunità di guadagno”.
Eleanor Beevor, analista senior presso l’Osservatorio dell’Africa occidentale, che si occupa in particolare dello sviluppo della criminalità organizzata transnazionale, segnala che “i gruppi jihadisti usano la tattica del bastone e della carota. Da un lato, permettono alle persone di condurre attività illegali, come il contrabbando di carburante o altre merci attraverso le frontiere, senza rischi di essere bloccati. Dall’altro mostrano chiaramente cosa può accadere a chi non accetta la loro presenza”.
Oltre ai militari, gli obiettivi degli estremisti islamici sono i rappresentanti dello Stato, come per esempio i sindaci, i leader religiosi e, in particolare, i membri dei Volontari per la difesa della patria, la milizia civica costituita dal governo nel 2020 per affiancare l’esercito. Come in tanti altri Paesi del Sud del mondo, alla ricchezza in termini di risorse del proprio territorio, in questo caso soprattutto oro, non corrisponde uno sviluppo umano solo minimamente accettabile. Obiettivo ora ancora più complicato da raggiungere, in quanto proprio gli integralisti puntano al controllo dell’oro. Precedentemente i proprietari dei terreni, o i concessionari, operavano attraverso autorizzazioni statali – e sotto la protezione di gang o associazioni tradizionali di cacciatori, come i Dozo, in accordo con le autorità di polizia locali. Ma l’arrivo del Jnim ha cambiato completamente lo scenario, nella misura in cui essi permettono a tutti di scavare in cambio di un contributo meno oneroso di quello richiesto in precedenza. Lo stesso dicasi per le attività di contrabbando di carburante, sigarette e altre merci alle frontiere meridionali del Paese, che spesso sono più una forma di sopravvivenza che un’attività illecita in senso stretto.
Secondo il già citato rapporto, “il Jnim ha forgiato intese di mutua assistenza, soprattutto con i piccoli contrabbandieri, che agiscono, per esempio, attraverso le aree naturali protette ai confini con il Benin. In cambio di informazioni, carburante o parti di ricambio, i terroristi attaccano i posti di polizia o i militari, che abbandonano l’area lasciando campo libero ai contrabbandieri”.
Come questo Paese dell’Africa occidentale, grande poco meno dell’Italia e con un terzo della sua popolazione, possa uscire da una situazione che definire drammatica sarebbe un eufemismo, è una domanda da un milione di dollari. Certo, questi gruppi vanno fronteggiati militarmente, cercando di impedirne la penetrazione nell’economia del Paese. Per quanto si possano detestare gli ex colonizzatori, l’arrivo dei russi al posto dei francesi aggiunge un’altra criticità a quelle già esistenti. Solo una rinnovata presenza dello Stato sarebbe un elemento dirimente per uscire dal tunnel. Ma che questo obiettivo possa essere raggiunto, in un contesto di destabilizzazione, dà adito a più di un dubbio.