Il Brasile andrà al ballottaggio il prossimo 30 ottobre e deciderà chi sarà il presidente per i prossimi quattro anni, tra Lula da Silva e un Jair Bolsonaro che tutti i sondaggi davano in grande svantaggio, ma che la consultazione di ieri ha rafforzato, certificando come il bolsonarismo sia ben lungi dall’essere morto. Se l’obiettivo di Bolsonaro era di evitare la vittoria al primo turno di Lula e andare al secondo, si può dire che il suo scopo l’abbia raggiunto alla grande, avendo tutte le carte in mano per rendere difficile la vittoria dell’ex sindacalista. In termini di percentuali, Lula ha ottenuto il 48,43% delle preferenze, superiore al suo avversario che si ferma al 43,20%, quando ormai è stato scrutinato il 99,99% delle schede, ma ben al di sotto dei sondaggi che tra i due prevedevano una distanza maggiore.
Alla fine, non c’è stata la vittoria al primo turno di Lula: la lunga notte ha riservato qualche sorpresa iniziale, dando addirittura in vantaggio Bolsonaro, quasi a smentire le previsioni della vigilia, che attribuivano al candidato di centrosinistra una tranquillità alla quale, probabilmente, il primo a non credere era lui stesso, visti gli appelli accorati al voto utile e a non astenersi. Sta di fatto che, per alcune ore, l’iniziale risultato del conteggio ha destato viva preoccupazione tra le file del centrosinistra, oltre a confermare l’assoluta polarizzazione del Paese. Poi, una volta che Lula ha sopravanzato nel conteggio Bolsonaro, i suoi sostenitori si sono concentrati in Avenida Paulista, il cuore pulsante della megalopoli San Paolo, per fare festa, nonostante le preoccupazioni che un risultato simile presenta per il prossimo futuro.
In termini di voti reali, Lula ha ottenuto 57.257.473 preferenze, mentre Bolsonaro 51.071.106. Al terzo posto, Simone Tebet, rappresentante del centrodestra e del settore agroindustriale, con il 4,16% e 4.915.288 voti. Lei è la vera sorpresa di queste elezioni, mentre il laburista Ciro Gomes, ex ministro di Lula con il quale in seguito ha rotto, si è sgonfiato, ottenendo solo il 3,04%, e 3.599.196 voti che fanno gola a Lula per il ballottaggio. Durante lo scorso scontro elettorale, quando Bolsonaro è andato al ballottaggio vincente con il candidato della sinistra, Fernando Haddad, Gomes ha preferito prendere un aereo per Parigi, pur di non votare il Partito dei lavoratori. Sarà da vedere cosa deciderà questa volta.
Oltre a testimoniare la forza del bolsonarismo, le elezioni hanno espresso una maggioranza parlamentare conservatrice, nella quale il Partito liberale di Bolsonaro ottiene novantanove deputati, affermandosi come il più grande partito alla Camera bassa. In più, al presidente uscente è riuscito anche di far eleggere i maggiori sostenitori della sua avventura: il che lo rafforza ancor più, rendendo vana la speranza di un tramonto del bolsonarismo come espressione politica nel Brasile di domani. Ne esce un parlamento maggiormente schierato a destra: di certo una consolazione per Bolsonaro, in caso di vittoria di Lula al secondo turno.
Anche l’ex giudice ed ex ministro, Sergio Moro, che ha rotto con Bolsonaro, e l’ex procuratore Dalton Dellagnol entrano alla Camera alta. Entrambi si sono fatti conoscere come acerrimi avversari di Lula, figure chiave nel processo “lava jato”, che ha indagato su un enorme sistema di corruzione nella società statale Petrobras. Grazie a loro, Lula ha passato in prigione diciannove mesi; ma la sentenza è stata annullata per irregolarità procedurali. Le elezioni hanno anche dato qualche vittoria alle cause progressiste, con le prime deputate federali trans del Brasile: Erika Hilton, Duda Salabert e Robeyoncé Lima. Al Senato, esponenti del Partito liberale e gruppi alleati hanno conquistato almeno 14 dei 27 seggi in lizza: quindi, pure lì, la maggioranza è conservatrice.
Si è votato anche per il rinnovo dei ventisette governatori degli Stati federali, e ne sono stati eletti quindici, compreso quello del Distretto federale di Brasilia, mentre gli altri dodici andranno al ballottaggio. A Rio de Janeiro è stato eletto Claudio Castro del Partito liberale. A San Paolo, lo Stato più ricco del Paese, Tarcisio Freitas, praticamente uno sconosciuto, un militare già ministro, va al ballottaggio con Fernando Haddad, ex sindaco della città, ed ex candidato alle presidenziali di quattro anni fa contro Bolsonaro. Haddad era il delfino che aveva sostituito Lula impossibilitato a correre, per via dei suoi procedimenti giudiziari.
Il risultato di San Paolo, con i suoi quarantasei milioni di abitanti, ha premiato Bolsonaro con il 47,8% dei suffragi, che ha distanziato Lula di ben sette punti, pari a quasi due milioni di voti. E, grazie al traino di Bolsonaro, Gomes, originario di Rio, ottiene il 42% dei voti e buone possibilità di vincere al ballottaggio. Nello Stato di Minas Gerais, è passato l’uomo d’affari Romeu Zema, del Partito neoliberale “Novo”, che ha mantenuto la neutralità nella disputa presidenziale. Essendo stato eletto nel 2018, sulla scia di Bolsonaro, può essere considerato come una sua creatura; mentre il Nordeste povero, memore delle politiche di sussidi attuate da Lula, gli ha dato la vittoria.
Viste le previsioni della vigilia, e il risultato che si è delineato, l’analista Míriam Leitão, nella sua rubrica su “O Globo”, ha scritto che “il bolsonarismo può festeggiare”. Ed è difficile darle torto, quando, tra l’altro, almeno nove ex ministri di Bolsonaro risultano essere stati premiati dalle urne. Tra di essi, due sono l’ex capo dell’Ambiente Ricardo Salles, che ha lasciato il governo per sospetti di corruzione, e Eduardo Pazuello, criticato per la sua gestione della salute durante la pandemia, che ha fatto quasi 700.000 morti in Brasile. Pazuello è stato il deputato più votato nello Stato di Rio de Janeiro, il terzo più popoloso.
Nelle quattro settimane che mancano al secondo turno, i due contendenti dovranno cercare di conquistare il voto di chi ha sostenuto Tebet e Gomes, oltre a 32.765.980 di astenuti, 1.964.761 di schede bianche e 3.487.835 di nulle. A Lula, che è in testa, spetta decidere se continuare con la campagna che finora ha portato avanti, o sterzare per potere convincere a confluire su di lui chi ieri o non ha votato, o ha scelto candidati terzi.
In questo panorama, Simone Tebet è stata l’unica figura nuova di queste elezioni, brillando per la sua competenza nei dibattiti televisivi, nonostante la mancanza di esperienza politica, dove i due maggiori candidati, invece, hanno dato il peggio di sé, scambiandosi reciprocamente accuse di corruzione ed evitando così di entrare nel merito dei problemi del Paese. Carta giocata da coloro che hanno ipotizzato una terza via tra i due colossi della politica brasiliana, Tebet si è presentata per il Movimento democratico brasiliano (Mdb), formazione di centrodestra; è stata senatrice per due legislature e, in precedenza, ha ricoperto un incarico nel governo del Mato Grosso. È stata votata da chi ha detto basta a Bolsonaro, ma che non vuole nemmeno aderire alle proposte di Lula, il quale, in campagna, ha rivendicato l’età dell’oro dei suoi precedenti governi, evitando accuratamente di dire cosa farà in caso di vittoria per portare il Paese fuori dal disastro in cui Bolsonaro l’ha precipitato.
Per quanto la cinquantaduenne senatrice del Mato Grosso abbia riconosciuto di essere la rappresentante dell’industria agricola, non le sono estranee le preoccupazioni per la questione ambientale, su cui Bolsonaro, negazionista in tema di riscaldamento globale, glissa. Tanto è vero che, nel corso dell’ultimo dibattito televisivo, la senatrice ha denunciato che, nella sua terra di origine, già sono state registrate minori precipitazioni a causa del cambiamento in corso, mentre ha accusato Bolsonaro di non affrontare i veri problemi del Paese, preferendo deviare l’attenzione dei brasiliani sulle colpe del Partito dei lavoratori.
Una vittoria di Lula, pur tra le difficoltà che si troverà a affrontare con un parlamento e una maggioranza non affine, completerebbe il giro a sinistra iniziato con le vittorie delle forze progressiste in Honduras, Cile e Colombia, spostando gli equilibri politici dell’area. Uno dei temi della campagna è stato quello dell’Amazzonia, problema per il quale Bolsonaro ha rivendicato la sovranità brasiliana contro quelle che lui vede come ingerenze esterne. Il presidente non ha mai nascosto i propositi di sviluppo, che hanno comportato, negli anni del suo governo, una ripresa delle deforestazioni per favorire l’agricoltura e l’estrazione mineraria. Bolsonaro ha permesso che i tassi di deforestazione aumentassero nuovamente, dopo alcuni anni in cui si erano ridotti. E le sue politiche hanno spinto attivisti e indigeni a presentare una denuncia di genocidio davanti al tribunale penale internazionale dell’Aja, guidati dall’avvocato Luiz Henrique Eloy Terena, nell’ottobre 2021, anche se forse ci vorranno anni prima che la Corte decida.
L’Istituto di ricerca spaziale del Brasile è incaricato di monitorare la deforestazione della foresta pluviale, utilizzando immagini satellitari: secondo le sue analisi, l’area annuale deforestata è aumentata significativamente da quando Bolsonaro ha assunto la presidenza. Prima di allora, dal 2005, anno che ha rappresentato un record con 19.014 chilometri quadrati, i tassi di deforestazione sono scesi per un decennio, grazie al Piano d’azione per la prevenzione e il controllo della deforestazione in Amazzonia e ad altre misure.
In ultimo, enormi incendi hanno devastato la regione nel 2019 e nel 2020, ma il presidente Bolsonaro ha negato la realtà; mentre attualmente nuovi e forti incendi causati da persone stanno distruggendo la regione, anche se è vero che periodi secchi possono favorire l’autocombustione. Ciò fa ritenere, dagli esperti, che sotto il governo di Bolsonaro si sia verificato il ritorno di una forte associazione tra incendi e deforestazione. Negli anni precedenti, invece, questa relazione è stata più debole, ed è probabile che le grandi aree di foresta bruciata lo siano state per siccità estreme.
Bolsonaro considera la regione amazzonica principalmente come un’area economica, non come il polmone del pianeta, e vuole sviluppare l’agricoltura e l’estrazione mineraria. Spesso ha anche rivendicato che l’Amazzonia è brasiliana, e che solo i brasiliani possono decidere cosa farne. Negando che su di essa ci sia un diritto della comunità internazionale a tutelarla. Non crede al riscaldamento globale e ha sempre favorito la lobby agricola. Durante gli anni del suo governo, sono aumentate le minacce contro i popoli indigeni e gli ambientalisti, dato che gli agricoltori sono incoraggiati a impadronirsi illegalmente della terra, e i taglialegna e i minatori d’oro illegali a invadere le aree protette. Per attuare un programma di sfruttamento economico della selva, Bolsonaro ha concretamente indebolito le autorità ambientali preposte al controllo e ha congelato il fondo amazzonico. Per queste ragioni, la scelta che uscirà il 30 ottobre avrà conseguenze importanti sul tema ambientale, ben al di là delle problematiche strettamente brasiliane.
Un’ultima considerazione spetta al flop dei sondaggi, che avevano previsto ben altre percentuali di vantaggio per Lula. Spiegabile con il fatto che una parte degli elettori brasiliani, con tutta probabilità, si vergogna ad ammettere di votare per Bolsonaro. In un Paese dove sono milioni le persone che vivono nelle aree di povertà, i problemi della sopravvivenza vengono ampiamente prima di quelli della tutela ambientale: le prospettive di sviluppo promesse da Bolsonaro devono avere fatto presa in una realtà che, in mancanza di alternative serie e credibili, rende le tematiche ambientali appannaggio di chi serenamente può metter insieme il pranzo con la cena.