Un partito “geniale”: più di Gramsci, forse è la Ferrante, con i suoi romanzi dell’“amica geniale”, a spiegarci come si attraversi individualmente il tunnel dell’emancipazione dalla miseria. Dopo averla tanto reclamata o sollecitata, ecco che torna a esplodere la questione meridionale. In realtà né Gramsci, né Rocco Scotellaro, né Guido Dorso, o perfino lo stesso De Mita, la riconoscerebbero. I tratti delle dinamiche che hanno portato il Mezzogiorno ad affidarsi a un impasto di neocorporativismo dell’assistenza, con il voto di massa ai grillini, combinato con una richiesta di tutela anti-europea per quello alla Meloni, sfuggono alle categorie tradizionali. La distorsione del modello di sviluppo, la prevaricazione nordista, il fallimento delle classi dirigenti locali, sono sempre motivi di lamentazione – ma stanno sullo sfondo rispetto a una diretta ed esplicita negozialità di ogni singolo elettore, di ogni figura sociale che cerca l’interfaccia con le istituzioni per contrattare il proprio reddito.
Più che i sacri testi sociologici o ideologici, perciò, potrebbe aiutarci l’opera di Elena Ferrante. Oggi forse diventa più nitido e decifrabile il valore di quella narrazione asciutta, scevra da luoghi comuni, ma soprattutto intrisa di una visione socio-antropologica della vita vera nel Mezzogiorno, a Napoli, nei quartieri del trionfo grillino. Un’allegoria perfetta di quelle trasformazioni, in cui la miseria diventa riscatto individuale, contorsione e adattamento per trovare una via di fuga dal quartiere, dalla condizione subalterna, ma sempre soli, separati dal resto. Il tunnel, che nell’immaginaria urbanistica del racconto congiunge il quartiere dei poveri alle zone dei ricchi, viene attraversato uno alla volta, e spesso si torna indietro, per reinvestire nel quartiere il proprio momentaneo benessere.
Si è poveri ognuno a modo suo – dice Lila nel racconto. Ed è questa molecolarizzazione della povertà, della percezione di avere meno del proprio vicino, prima ancora di non avere quanto è giusto, che altera e distorce il senso della rappresentanza politica.
I dati del grafico che riportiamo non lasciano spazio alle interpretazioni. Il profilo del voto ai 5 Stelle coincide, in maniera chirurgica, con la densità dei percettori di reddito di cittadinanza, lungo tutto lo stivale. Una corrispondenza dalle Alpi alle Piramidi, che ci dice che la relazione è strutturale. Non sarebbe comprensibile altrimenti il parallelismo perfetto.
Ora, come dice qualcuno, questo dovrebbe spingere a valorizzare la capacità di ascolto e inclusione che il partito di Conte è riuscito a realizzare. Ma ciò sarebbe vero se fossimo in presenza di un’altra corrispondenza: ossia se i percettori di reddito fossero esattamente i ceti e le figure più escluse da altre forme di sussistenza, e fossero appunto gli ultimi della fila. Ma così non sembra. Non tanto e non solo per le note deformazioni nei meccanismi distributivi e gestionali del sussidio, quanto perché – e qui il racconto della Ferrante è illuminante – sono mutate la composizione sociale e le forme di organizzazione degli strati marginali. Proprio Scampia, il regno di Conte che arriva in alcuni seggi alla stratosferica quota dell’82% dei votanti, mostra come – nello stesso quartiere, nello stesso caseggiato, nello stesso nucleo famigliare – convivano elementi di assoluta povertà con combinazioni di reddito di diversa e non sempre accertabile provenienza. Il paradosso è che spesso – se non proprio frequentemente, diciamo almeno non raramente, secondo quanto avrebbe accertato l’Inps con i suoi controlli a campione – proprio coloro che possono contare su canali di sostentamento invisibili riescono meglio ad assicurarsi il “reddito di cittadinanza”.
Non stiamo assolutamente contestando la legittimità e civiltà di una strategia di contrasto concreto alla povertà; stiamo cercando di capire quanto questa politica sia stata deformata e deviata proprio nei suoi condivisibilissimi fini. E quanto abbia prodotto forme di consenso inquinato. Non sarebbe certo la prima volta che questo accade. Sia al Sud – con le note cronache dei guru che citavamo prima circa le forme di assistenzialismo clientelare, su cui la Democrazia cristiana ebbe modo di costruire, per cinquant’anni, un blocco di potere – sia al Nord, assicurando margini di evasione e di privilegio nell’accesso al credito, che hanno permesso una successione indolore fra Dc e Lega.
In questo gorgo, si allentano identità e appartenenze, soprattutto lungo quel crinale, sempre più incerto e confuso, che distingue il ceto medio dalle aree sociali marginali. In questo gorgo, si logora l’idea di Stato come spazio pubblico, e si privatizza la speranza di emancipazione, che diventa contrattazione singola e riservata.
È la crisi della politica che diventa crisi della nazione. Scriveva Gramsci nei Quaderni: “A un certo punto della loro vita storica i gruppi sociali si staccano dai loro partiti tradizionali, cioè i partiti tradizionali in quella data forma organizzativa, con quei determinati uomini che li costituiscono, li rappresentano e li dirigono non sono più riconosciuti come loro espressione dalla loro classe o frazione di classe. Quando queste crisi si verificano, la situazione immediata diventa delicata e pericolosa, perché il campo è aperto alle soluzioni di forza, all’attività di potenze oscure rappresentate dagli uomini provvidenziali e carismatici. Come si formano queste situazioni di contrasto tra rappresentanti e rappresentati, che dal terreno dei partiti […] si riflettono in tutto l’organismo statale, rafforzando la posizione relativa del potere della burocrazia (civile e militare), dell’alta finanza, della Chiesa e in generale di tutti gli organismi relativamente indipendenti dalle fluttuazioni dell’opinione pubblica? In ogni Paese il processo è diverso, sebbene il contenuto sia lo stesso. E il contenuto è la crisi di egemonia della classe dirigente. […] Si parla di ‘crisi di autorità’ e ciò appunto è la crisi di egemonia, o crisi dello Stato nel suo complesso”.
A Milano, dove la società civile ha una sua robustezza e completamento nell’intersezione con le economie europee, questo disincanto diventa un voto di opinione leggero e occasionale, che di volta in volta sceglie il meno dannoso. E infatti sia i grillini sia la stessa destra perdono smalto. Nel Sud, invece, lo sganciamento dai partiti diventa un investimento negoziato per supplire alla mancanza di un dinamismo produttivo. In questo spazio di ambiguità, in cui la politica perde la sua strumentazione e lascia campo libero a forme del tutto improprie di selezione del consenso, lo sviluppo diventa casta e la miseria clientelismo. Non è una novità che politiche nate con l’obiettivo di ridurre e mitigare la marginalità e la disoccupazione siano poi diventate forme cronicizzate di micro-privilegio e spreco.
Oggi subentra, però, accanto ai rischi di una riproduzione del fenomeno dell’assistenzialismo clientelare, una diversa dinamica sociale prodotta dalla scomparsa della cultura di massa indotta dal lavoro di fabbrica, da una pervasività dell’immaginario consumista, e da fenomeni di ambizione e istinto personale, che portano, come si dice in America per il voto a Trump, i poveri a pensare e votare da ricchi. In questo contesto, si inserisce l’offerta grillina, che combina sistemi di reclutamento del personale politico, mediante l’organizzazione di reti territoriali – anche minime ma influenti nell’ambito di una struttura limitata –, con relazioni digitali che rendono possibili micro-negoziazioni.
Qualcuno ricorderà, a Napoli, alla fine degli anni Settanta, le liste dei disoccupati organizzati. Erano vere e proprie gilde della disperazione, in cui si inserivano componenti corpose di malavita e avventurieri, che si formavano sulla base della composizione di una lista, una sequenza di nomi che dava diritto a un’immaginaria precedenza nell’accesso a un posto di lavoro. Ogni capo clan, o ras politico locale, organizzava la propria lista, che portava in piazza a schiamazzare, per tenere sotto pressione l’istituzione, che periodicamente apriva valvole di sfogo con sussidi o lavori fittizi. Questo modello si è intromesso nella selezione delle miserie reali, alterando e inquinando la percezione stessa dell’istituto di supporto.
Siamo fermamente convinti che si debba arrivare a misure generalizzate di reddito sociale, che compensino i processi di automatizzazione e accumulazione concentrata in poche mani di ricchezza tecnologica, con una base di sussidio che assicuri, comunque, una vita possibile a giovani e famiglie. Proprio per questo non pensiamo, però, che si debba ignorare come stia crescendo una devastante cultura dell’élite della miseria, in cui insieme a quote relativamente minori di effettivi bisognosi, uno strato di furbi che galleggiano su relazioni e voti di scambio.
Ricostruire una relazione con questo mondo di Scampia, per sintetizzare, non può ridursi ad accostarsi semplicemente a chi sta inevitabilmente lucrando sulle distorsioni di una norma sacrosanta. Significa ragionare sulla nuova natura della miseria, sugli effetti del tutto imprevedibili di processi che spingono sempre più verso isolamento e individualismo e non favoriscono solidarietà e comunitarismo. Proprio i libri di Elena Ferrante potrebbero aiutare ad avere una visione non convenzionale o frivola dei bisogni e delle drammatiche esclusioni che l’indigenza produce. Combinando sostegno materiale, reddito di base e forme di sostegno all’emancipazione reale, che assicurino la formazione oltre l’obbligo, che facilitino eventuali accessi a scuole di specializzazione, che combattano quella discriminazione del master che ha spostato oltre l’università la discriminazione fra i ricchi e i poveri. Reddito più dignità, si potrebbe dire, severamente combinati fra loro, per rendere il tunnel dell’“amica geniale” una libertà, da attraversare senza il pedaggio di un voto con il cappello in mano.