Nulla di nuovo sotto il sole. Bastano queste poche parole per riassumere che cosa è successo alle forze politiche a sinistra del Pd, nella tornata elettorale di domenica scorsa, e in che modo ci siamo ritrovati di fronte a uno scenario già visto. Ancora una volta, da un lato, si è presentata una coalizione formata, in questo caso, da Sinistra italiana ed Europa verde – che per semplificare definiamo più moderata –, e, dall’altro, una formazione più radicale, l’Unione popolare guidata dall’ex sindaco di Napoli, Luigi De Magistris, alla testa di un’alleanza nella quale spiccavano Rifondazione comunista e Potere al Popolo. La prima disposta a un accordo con il principale partito di centrosinistra, con il quale era stata realizzata un’intesa tecnica, grazie alla quale i partiti di Bonelli e Fratoianni hanno ottenuto dodici deputati e quattro senatori, con una percentuale del 3,6%. La seconda, invece, indisponibile a qualsiasi compromesso, ha fatto una scelta che non le ha permesso di entrare in parlamento, avendo ottenuto solo l’1,4%. Come dicevamo, un déjà vu.
Già nel 2001 i Comunisti italiani di Armando Cossutta si presentarono nell’Ulivo, e Rifondazione comunista di Fausto Bertinotti fuori da ogni schieramento. Saltando al 2013, avvenne qualcosa di analogo con Sinistra ecologia e libertà (Sel) di Nichi Vendola, in parlamento grazie all’intesa “Italia bene comune” con il Pd di Pierluigi Bersani; mentre Rivoluzione civile, dell’ex magistrato Antonio Ingroia, in corsa da sola con Rifondazione comunista, Comunisti italiani, Verdi e Italia dei valori, non raggiunse il quorum. Scelte diverse, che ancora oggi frammentano le piccole formazioni di sinistra, i cui dirigenti e militanti provengono quasi tutti (non è il caso di De Magistris) dalle esperienze di Rifondazione comunista e Sel.
Come abbiamo già scritto in un articolo del 23 agosto scorso (vedi qui), a differenza degli ecologisti, all’interno di Si non è stato affatto facile far digerire un’intesa con una delle peggiori segreterie di un partito già per definizione fallimentare, trasformato da Enrico Letta in una semplice appendice del governo Draghi (vedi l’editoriale del 27 settembre), iper-atlantista e incapace di chiedersi, a differenza dei 5 Stelle di Giuseppe Conte, dove potrà condurci questa guerra. Una parte consistente del partito avrebbe preferito un’intesa con il movimento fondato da Beppe Grillo, il cui programma, grazie all’abilità dell’ex premier, è stato costruito con una grande attenzione ai temi sociali, assenti da sempre dalla filosofia del Nazareno, i cui dirigenti, per dirne una, non si sono mai sentiti in dovere di cancellare il famigerato jobs act di renziana memoria, che ha avuto il “merito” di rendere ancora più precario il rapporto dei lavoratori con le imprese, dando a queste ultime maggiore libertà di fare il bello e il cattivo tempo con i propri dipendenti.
Da parte di alcuni esponenti di Unione popolare, erano anche arrivati appelli a Fratoianni perché si unisse in una scommessa tuttavia persa in partenza. A cose fatte, si deve prendere atto che la scelta di Europa verde-Si si è rivelata intelligente. Consapevoli dell’impossibilità di una vittoria del centrosinistra, che avrebbe fatalmente riproposto a una forza radicale l’angoscioso interrogativo se sostenere o no un esecutivo moderato, l’accordo tecnico ha permesso di conquistare un discreto gruppo di parlamentari, che potrà muoversi autonomamente, cercando di fare un’opposizione degna di questo nome, per il momento principalmente con i 5 Stelle.
Sulla breve esperienza di Unione popolare, le considerazioni da fare sono sempre le stesse. Se anche con la presenza di un leader “carismatico” come De Magistris, che però ha fatto il suo tempo, e con la scelta di un nome che evocava la formazione di Mélenchon, quest’area politica, allergica comprensibilmente a intese con il centrosinistra, non ha evitato il fallimento, le conclusioni a cui dovrebbero arrivare sono scontate – o almeno dovrebbero esserlo. Non hanno appeal, sono soggetti vecchi. Rifondazione è presente, nel quadro politico italiano, da trentadue anni, e da tempo viaggia con percentuali da prefisso telefonico, al pari della più giovane formazione di Potere al Popolo, poco propensa a realizzare intese di ogni tipo, anche con i suoi vicini, come successe in occasione dell’elezione del sindaco di Roma, dove i due partitini non riuscirono a trovare un’intesa su un candidato unitario.
Come ha sostenuto la direttrice del “manifesto”, Norma Rangeri, in un editoriale sui risultati elettorali, queste forze politiche, invece di denunciare come al solito l’emarginazione, vera peraltro solo in parte, dalle trasmissioni televisive, dovrebbero prendere atto dell’inutilità di cimentarsi nelle diverse competizioni elettorali, individuando altre strade per restare nel “gorgo” della sinistra in Italia.