Sette anni fa, il 27 settembre, moriva Pietro Ingrao. Oggi vorrei ricordare che, già negli anni Settanta, Ingrao aveva individuato l’inizio della crisi dei “trent’anni gloriosi”, di quel compromesso tra capitale e lavoro che aveva caratterizzato l’uscita dell’Europa dalla guerra e dal fascismo. Gli fu dunque facile dire nell’Ottantanove che il problema per le sinistre in genere, e per il Pci in particolare, non era recuperare una radice socialdemocratica dopo la fine dell’Unione sovietica. Infatti, era proprio il compromesso socialdemocratico dei “trenta gloriosi” a essere entrato in crisi, e l’opera di rinnovamento non poteva avere a che fare con facili abiure e ritorni al socialismo democratico, ma con l’interrogazione critica del capitale, della sua pervasività nella vita di milioni di uomini e donne, con lo studio per pensare un altro modello di società, di sviluppo, di rapporto fra uomini e donne, e tra gli esseri umani e la natura. Il suo assillo fu l’orizzonte del comunismo, una visione tragica, in cui la società più giusta e più umana poteva sempre essere pensata ma mai realizzata compiutamente nella contingenza storica. In quello scarto, stava la democrazia, lo spazio della politica, la bellezza di un’elaborazione collettiva, popolare e solidale, di quello stesso scarto per renderlo praticabile e anche gioiosamente partecipabile.
Chi oggi immagina di tornare al compromesso tra capitale e lavoro, nel pieno dell’egemonia neoliberale – egemonia intesa come set di valori che ispirano la vita, e rendono ancora più pervasiva la forza del capitale –, non ha capito la grande lezione di Ingrao: cerca scorciatoie impossibili quando invece ci vorrebbe l’assillo dello studio, lancia parole d’ordine e appelli sgrammaticati, quando invece sarebbe necessaria la paziente elaborazione di una strategia politica e culturale.
Ingrao non era fuori dal tempo, come spesso i suoi avversari – interni al partito e fuori – lo dipingevano. Fu solamente lungimirante e profetico. Vide la crisi arrivare molto prima di tutti gli altri, e il suo lavoro teorico, soprattutto alla direzione del Centro per la riforma dello Stato, lo sta a dimostrare, assieme con quello di tanti compagni e tante compagne che lavorarono con lui in quegli anni.
E non era un sognatore o un “acchiappanuvole” (parola che ripeteva egli stesso in modo ironico). Era segnato dall’assillo per il destino della sua parte, nel momento in cui un mondo stava per finire per sempre. Era assillato dalla ricerca, sapendo che cambiare nome per accedere al governo del Paese non avrebbe risolto le questioni fondamentali: come ripensare una nuova forma di critica del capitale e nuove istituzioni nel momento massimo di potere del capitalismo neoliberale e di crisi della democrazia.
Ora che quei nodi vengono al pettine, sarebbe da riprendere quella tensione, quell’assillo che si leggeva sulla faccia di Pietro, anche in quei tratti somatici così segnati dal pensiero continuo, dalla riflessione. Il punto di attacco, per la sinistra, sta in quei nodi che Ingrao aveva individuato già negli anni Settanta e Ottanta, e non nel sogno di improbabili sovranità nazionali da recuperare, facendo appello al popolo per tornare al compromesso tra capitale e lavoro da posizioni di forza.
A proposito di “popolo”, molti negli anni Novanta, sulla scorta dell’insegnamento di Ingrao, paventarono, come uno dei problemi fondamentali del futuro, l’impoverimento dei ceti medi e la paura che li avrebbe spostati a destra, una volta consumati i margini delle politiche riformiste e di ridistribuzione della ricchezza. E anche lì avevano visto giusto e lontano…