Il professor Becchetti, economista all’università di Roma Tor Vergata, è uno dei massimi esperti di riconversione industriale. Da anni, oltre a svolgere la normale attività accademica, è impegnato con l’associazione Next nuova economia per tutti, che raccoglie 55 realtà chiave del nostro Paese e ha accompagnato più di 670 aziende nella transizione ecologica. Con il Festival dell’economia civile, da quattro anni vengono premiate le buone pratiche imprenditoriali. Gli abbiamo chiesto un commento sulla crisi e sulla possibile nuova recessione che potrebbe colpire il sistema economico. Ecco che cosa ci ha risposto.
Professore, i dati che circolano sullo stato di salute dell’economia italiana e in particolare sulla situazione dei comparti produttivi sono tutti molto preoccupanti. Le agenzie di rating hanno tagliato le stime di crescita dell’Italia. Siamo alla vigilia di un’altra recessione? Il declino industriale di cui si parla da anni è inesorabile?
Stiamo vivendo una rivoluzione industriale che si chiama transizione ecologica e digitale. Come in ogni epoca storica, il sistema economico presenta elevati tassi di creazione e distruzione di posti di lavoro e un forte ricambio di imprese. È sempre stato così. È come se, osservando una foresta, ci accorgessimo solo degli alberi che muoiono e non di quelli che nascono. Il problema che rende la situazione industriale diversa da quella vegetale è che ogni morte d’impresa comporta una dolorosissima perdita occupazionale e l’esigenza di una riconversione. Il modo migliore per affrontare questa – come ogni altra trasformazione – è investire in innovazione, fare rete con i sistemi distretto e assicurare ai lavoratori percorsi di formazione permanente. La formazione per i lavoratori deve essere un diritto riconosciuto.
La Confindustria e i sindacati hanno lanciato l’allarme su un possibile “tsunami” industriale in autunno. Al ministero sono aperti decine di tavoli di crisi che coinvolgono almeno settantamila posti di lavoro, ma c’è chi parla di cifre che si moltiplicheranno con la stretta sui costi dell’energia. Molte aziende minacciano la chiusura. Qual è la situazione reale?
La questione dell’energia è un problema che si aggiunge a quello strutturale della transizione. È un problema che ci siamo cercati, perché sarebbe stato saggio per il Paese ridurre il più possibile la dipendenza per una variabile così strategica come l’energia dalle fonti fossili, e in particolare da fonti il cui prezzo e somministrazione dipende da Paesi come la Russia. Ci sono molte aziende nel nostro Paese che hanno saputo anticipare il problema, capendo che la dipendenza dal gas era una fonte di rischio. Probabilmente lo hanno fatto anche per sensibilità al problema ambientale e alla transizione ecologica, e ora si ritrovano con un vantaggio competitivo. Le tecnologie ci offrono molte opportunità oggi. Per il clima e per i prezzi dell’energia bisogna accelerare la transizione alle rinnovabili.
Nella lista delle nuove crisi non ci sono solo le aziende energivore. Quali sono i settori più in difficoltà?
Non è una questione di settore, anche se le energivore sono più esposte per il maggiore fabbisogno di energia. Ma conosco buone pratiche in settori energivori, come quelli della produzione di carta o di piastrelle, che hanno fatto la transizione e oggi sono più competitive dei loro concorrenti, perché una parte importante del loro fabbisogno di energia è autoprodotto, con pannelli fotovoltaici sopra i capannoni.
I sindacati, alcuni economisti e qualche politico lamentano da anni la mancanza di una politica industriale nazionale, mentre vari osservatori mettono l’accento sull’assenza di visione da parte dei partiti. Ci mancano cultura e prospettiva d’impresa?
Le imprese hanno bisogno di una politica levatrice delle energie della società. Le politiche “industry 4.0” sono state importanti per stimolare l’innovazione e l’introduzione di beni d’investimento più avanzati. Non c’è stata la politica di incentivo per le imprese, verso l’adozione di impianti di autoproduzione, e stiamo vedendo ora le conseguenze.
Oltre ai problemi legati alla guerra e alla corsa del prezzo del gas, e in generale dell’energia, il sistema produttivo deve affrontare la sfida epocale della transizione. Con la riconversione e le innovazioni in termini di sostenibilità ambientale si potrebbe fare tantissimo. Basti pensare a settori come la siderurgia o la lavorazione dei metalli e la chimica. Ci sono esempi positivi a cui ispirarsi? Quali sono oggi le buone pratiche nell’industria italiana?
Il governo ha varato durante il mese di agosto un fondo di 3,4 miliardi per investimenti delle imprese che riducono le emissioni di CO2 o il fabbisogno di energia per unità di valore prodotto. È uno stimolo tardivo ma importante per premiare il progresso tecnico verso la transizione ecologica, in un’ottica di neutralità tecnologica (non mi interessa quale strada prendi, quello che conta è il risultato). Di buone pratiche ce ne sono tantissime – e la direzione comune è sostituzione di fonti fossili con rinnovabili, introduzione di impianti di cogenerazione e trigenerazione, che fanno risparmiare energia. In agricoltura la frontiera sono le pergole fotovoltaiche che creano esternalità positive tra pannelli e coltivazioni, riducendo evaporazione dell’acqua e bisogno di irrigazione.
Imprenditori coraggiosi e visionari come Adriano Olivetti sono una rarità, come sono ancora rari gli esempi di intervento statale innovativo dopo la fine delle Partecipazioni statali. Quale rapporto tra capitale privato e capitale pubblico è pensabile?
Non sono affatto una rarità. È molto grave che ci sia questa percezione. Con Next nuova economia per tutti (associazione di promozione sociale che tiene assieme 55 realtà chiave del nostro Paese, tra le quali sindacati, associazioni dei consumatori, Ong, organizzazioni ambientaliste) abbiamo identificato e accompagnato, con l’autovalutazione partecipata, centinaia di imprenditori olivettiani. Con il Festival dell’economia civile, da quattro anni, premiamo le buone pratiche imprenditoriali che diventano ambasciatrici di economia civile. Conosco moltissimi Olivetti dei nostri tempi. Il problema chiave è la loro visibilità nel mondo della comunicazione. Anche su questo proviamo a fare progressi in tante direzioni, ma la strada è ancora lunga.
Quanto al rapporto tra pubblico e privato, il capitale pubblico è fondamentale su settori strategici, come quelli delle grandi infrastrutture fisiche e digitali. Per il resto, il pubblico deve essere levatore delle energie della società civile con leggi e incentivi che le mettono in moto. Penso alla legge sulla cooperazione sociale di tipo A e B che ha fatto nascere migliaia di imprese, in Italia, che coniugano la creazione di valore economico con il reinserimento nel lavoro di categorie fragili.