In Brasile l’ombra del partito militare, sulle elezioni presidenziali e parlamentari del prossimo 2 ottobre, spinge Lula verso intese extra-large, alla ricerca di un’immediata maggioranza. Le incognite del mese circa che intercorrerebbe tra la prima consultazione e l’eventuale ballottaggio, suscitano inquietudini tali da riavvicinarlo ai peraltro non meno preoccupanti “moderati”, più di uno dei quali è stato a suo tempo rivale o alleato. I timori del presente diluiscono rancori e malintesi del passato. Bolsonaro, dato per perdente da tutti i sondaggi, denuncia infatti l’inaffidabilità del sistema elettorale (vigente, senza contestazioni, da vent’anni, e con cui è stato eletto lui stesso), dichiarando così che quello che si profila non è un normale confronto politico-elettorale, bensì una “sfida mortale tra il bene e il male”. E le forze armate, con quattrocento ufficiali superiori tra governo e alta burocrazia di Stato, ammoniscono che controlleranno, con un proprio sistema, contabilità e legalità dello scrutinio. Uno scrupolo improprio e inedito che genera gravi sospetti.
Il Paese è agitato dalle tensioni di una pesante crisi economica e di una turbolenta polarizzazione. I quattro anni di governo Bolsonaro hanno mancato le due sfide più attese: la difesa dei cittadini dalla violenza criminale nei grandi centri abitati; e poi la protezione dal Covid-19, ovunque e soprattutto nelle aree urbane sovraffollate. Gli indici dell’“Istituto brasileiro de geografia e estatistica” dicono che il crimine nelle città è aumentato, e il maggior numero dei morti viene registrato nelle operazioni d’intervento condotte dalla polizia militare. Quasi sempre accusata di reprimere indiscriminatamente – quando non di essere collusa con i narcotrafficanti che dominano le favelas. La pandemia, di cui Bolsonaro ha sempre negato il pericolo, definendola una “comune influenza”, ha provocato 685mila morti e danni economici enormi, riconosciuti dagli stessi governatori bolsonaristi, in aperto contrasto con il loro capo politico.
Bolsonaro ha inoltre tagliato pesantemente la spesa di sanità, istruzione e previdenza sociale per defiscalizzare i settori produttivi più colpiti dalla crisi energetica internazionale; ma, sebbene migliorata, è un anno circa che l’economia non risale su dalla recessione. La disoccupazione ufficiale è intorno al 9%, e il lavoro nero viene stimato in crescita, contrariamente ai salari. Risorge l’inflazione, vicina alle due cifre. Con 125 milioni di brasiliani in condizioni di penuria, 33 dei quali in povertà estrema, su una popolazione totale di 216 milioni. Non ha rianimato né i mercati né i suoi elettori la cavalcata propagandistica compiuta dal presidente con le celebrazioni del bicentenario dell’indipendenza nazionale (7 settembre). Così come le simpatie per Putin, riaffermate alla recente Assemblea generale delle Nazioni Unite. Qualche fessura si è anzi aperta nel suo vasto elettorato, influenzato dalle Chiese evangeliche devote alla tradizione e alla gerarchia sociale.
Questo è un fronte decisivo. Poiché, se nelle forme più marcatamente sociali (pentecostali e neo-pentecostali: la loro “teologia della prosperità” è un’esaltazione iper-volontaristica dell’individualismo, “basta volere per avere”) l’evangelismo è attivo soprattutto nelle zone di minore reddito e istruzione, il suo complesso agisce ormai nell’intera società brasiliana, e quindi in quasi mezza America latina. I dati dicono che – dalla metà del Novecento a oggi – i cattolici, nel più grande Paese sudamericano, sono passati dal 95 al 44,9%. Mentre nel medesimo periodo gli evangelici sono aumentati costantemente, salendo dal 2,7 al 39,6% della popolazione. Gli statistici ipotizzano, tra un decennio, il sorpasso di questi ultimi sui primi. Una transizione religiosa, quindi socioculturale, di portata epocale, che in meno di un secolo farebbe del “continente più cattolico del mondo” un “continente riformato”. Sebbene con numeri molto più contenuti, un’analoga tendenza è in atto anche negli altri Paesi della regione.
Lula, rassicurato dai sondaggi che gli attribuiscono quindici punti di vantaggio su Bolsonaro, ha rotto ogni indugio. Convocando il candidato a vicepresidente Geraldo Alckmin, un socialista proveniente dall’Opus dei, e l’economista Henrique Meirelles, già responsabile mondiale del Bank of Boston, presidente del Banco centrale brasiliano quando Lula era capo di Stato (tra il 2003 e il 2011), ma sostenitore di Bolsonaro, quattro anni fa (dunque non proprio il massimo per la sinistra radicale del Pt e per il Partito comunista che partecipa alla coalizione). Insieme hanno riunito pubblicamente i dirigenti delle sette formazioni politiche di sinistra-centro che li sostengono, chiedendo il voto di tutti i veri patrioti democratici. L’ecologista Marina Silva, storica avversaria di Lula e personaggio chiave nella destituzione della presidente Dilma Rousseff, ha chiesto di votare per Lula al fine di pacificare il Paese, disarticolare il partito militare e riaffermare la centralità della democrazia. L’indomani il dollaro è sceso, l’indice della Borsa di San Paolo è salito. Il “rischio-Paese” è oggi il “rischio-Bolsonaro”.
Nella foto: Lula da Silva e Geraldo Alckmin