Se non fosse che lo sport preferito dagli arabi ricchi è già la caccia con il falco, potrebbe esserlo quello dello “schiaffo al vecchio leone”. In ogni caso, i principi sauditi forse si stanno già allenando. Veniamo agli antefatti. Con lo scoppio della guerra in Ucraina, si è impennato il prezzo del gas e con esso quello del petrolio. I Paesi interessati, Italia compresa, si sono messi alla ricerca di nuove fonti di approvvigionamento per compensare la riduzione delle forniture russe. La dipendenza dell’Europa dal gas russo è nota, e ci sono valide ragioni economiche per ridurla, e in prospettiva annullarla, diversificando le fonti. A queste ragioni si è aggiunta, con la guerra, la considerazione che non è bene che uno Stato democratico dipenda, per le proprie forniture, da uno Stato autoritario e per di più bellicoso come la Russia, finanziandolo con la propria valuta pregiata. Una considerazione che tuttavia non tiene conto del fatto che i Paesi produttori di gas e petrolio (Arabia saudita, Emirati, Iraq, Kazakistan, Venezuela e, affacciati sul Mediterraneo, Libia, Algeria, Egitto) sono, quale più quale meno, tutti dittature.
Ora, gli Stati Uniti, a differenza di quanto avveniva nel secolo scorso, hanno raggiunto la completa indipendenza energetica – anzi, sono diventati un Paese esportatore – grazie alla pratica del fracking, che ha permesso loro di sfruttare le amplissime riserve di cui dispongono. Ma per non sembrare insensibili di fronte alle difficoltà di approvvigionamento degli europei, e soprattutto per cementarne il sostegno contro l’aggressione russa, hanno anche cercato di convincere i Paesi produttori ad aumentare la produzione.
Un primo tentativo, discreto, è stato fatto con il Venezuela, nei confronti del quale, come si ricorderà, Stati Uniti e Unione europea, nel 2019, avevano appoggiato una sorta di colpo di Stato parlamentare per cacciare il presidente in carica Nicolás Maduro. Il tentativo di convincere il Venezuela è fallito, perché avrebbe comportato il riconoscimento della legittimità di Maduro e l’abolizione delle pesanti sanzioni contro il Paese, che il Congresso americano non avrebbe mai accettato.
Biden, quindi, ha pensato di rivolgersi ai Paesi della penisola araba, storici produttori di idrocarburi e fedeli alleati degli Stati Uniti da cui ricevono grandi forniture di armamenti con cui, in particolare l’Arabia saudita, conducono da anni una brutale guerra di sterminio nello Yemen. I rapporti tra americani e sauditi sono sempre stati burrascosi fin dal 1973, quando l’Opec, il cartello di Paesi produttori del Medio Oriente (più Venezuela e Russia), decretò il blocco delle esportazioni verso i Paesi che sostenevano Israele nella guerra dello Yon Kippur, provocando una gravissima crisi nei rifornimenti e – a cascata – economica, che coinvolse tutti i Paesi industrializzati. Né si può dimenticare che ben quindici dei diciannove attentatori dell’11 settembre erano cittadini sauditi, e che lo stesso Osama bin Laden, il capo di al-Qaida, era un principe della famiglia al-Saud. Ma in nome della Realpolitik – e del bisogno di petrolio –, questi dettagli sono sempre stati messi da parte. (Giova però anche ricordare che due presidenti americani, George H. W. Bush e il figlio George W., erano petrolieri con stretti rapporti economici con la casa regnante saudita.)
Poi, nell’ottobre del 2018, ci fu l’omicidio nel consolato saudita di Istanbul del giornalista con doppia cittadinanza saudita-americana Jamal Khashoggi, oppositore del regime di Riad, e i rapporti tra gli Stati Uniti e l’Arabia si fecero molto tesi, almeno in superficie. In campagna elettorale, Biden accusò esplicitamente dell’omicidio il principe di fatto regnante Mohammed bin Salman, rifiutandosi per un anno intero di incontrarlo, e definì l’Arabia saudita uno Stato “paria” con cui non si potevano avere rapporti.
Ma di nuovo la Realpolitik ha prevalso e, alla ricerca di petrolio per gli alleati europei (e per fare abbassare il prezzo della benzina negli Stati Uniti che gli poteva costare caro elettoralmente), a metà luglio, Biden si è recato a Gedda, in Arabia saudita, per partecipare al summit dei sei leader del Consiglio di cooperazione del Golfo più Iraq, Egitto e Giordania (vedi qui). Con il presidente dell’Egitto (altro grande beneficiario di forniture militari americane), al-Sisi, si è incontrato separatamente per sollecitarne l’assenso alle sanzioni nei confronti della Russia, che però non è venuto. Nell’incontro bilaterale, Biden non ha fatto menzione ad al-Sisi dei 45mila detenuti politici incarcerati, torturati e spesso fatti sparire (come nel caso di Giulio Regeni) dal regime egiziano. Al summit di Gedda, il discorso introduttivo del presidente americano, denso di riferimenti alla democrazia e ai diritti umani, dev’essere apparso surreale ai nove leader arabi presenti, tutti non eletti e dittatoriali con varie sfumature. In ogni caso, dal summit non è venuto nulla. Bin Salman e gli altri hanno dichiarato che volentieri avrebbero accontentato gli Stati Uniti, ma purtroppo non avrebbero potuto aumentare la produzione perché questo avrebbe depresso il prezzo del greggio e – si sa – anche le loro economie non vanno bene. Primo schiaffo.
La ramanzina, assai severa, è arrivata qualche giorno dopo la fine del summit in un’intervista del ministro degli Esteri saudita, un altro esponente della dinastia al-Saud, alla Reuters. Al giornalista, che gli chiedeva perché non erano stati perseguiti gli assassini di Khashoggi, il principe Faisal ha seraficamente risposto che l’Arabia saudita ha un eccellente sistema penale, al pari di quello americano. In entrambi i Paesi vengono talvolta commessi degli “errori”, come quelli commessi dagli americani ad Abu Ghraib e altrove torturando i prigionieri e uccidendo civili innocenti (da ultimo a Kabul, nell’agosto del 2021); ma come gli Stati Uniti avevano perseguito questi errori, perché non si verificassero più, così avrebbe fatto l’Arabia saudita nei confronti dei propri.
Per rincarare la dose il ministro saudita ha ricordato a Biden, per il tramite dell’intervistatore, che “può capitare” che giornalisti vengano uccisi in vari Paesi, come era successo due mesi prima alla giornalista palestinese-americana Shireen Abu Akleh uccisa dalle forze di sicurezza israeliane (vedi qui), senza che gli Stati Uniti abbiamo levato grande scandalo. (In effetti nella visita in Israele, prima del summit di Gedda, Biden non ha fatto menzione dell’uccisione della giornalista palestinese-americana.) Con molto garbo mediorientale, il ministro ha invitato gli Stati Uniti alla coerenza: il mondo è un brutto posto, dove si torturano e si uccidono gli oppositori – lo fate anche voi o lo lasciate fare ai vostri amici. Perché fare tanto chiasso? Una bella ramanzina al grande e potente alleato.
Il secondo schiaffo è di qualche mese fa, ma ha ricevuto scarsa attenzione su questa sponda dell’Atlantico. All’inizio della primavera l’attivissimo ministro degli Esteri americano, Antony Blinken, si ricorda che ogni tre anni, dal 1993, si tiene il summit delle Americhe, una riunione dei trentacinque capi di Stato e di governo del continente, giudicata dai più abbastanza inutile (esiste già la Oas, l’Organizzazione degli Stati americani). A Biden, sembra comunque una buona occasione per cementare la condanna del continente contro l’aggressione russa, rispetto alla quale svariati Stati (tra cui il più grande e popoloso, il Brasile) si erano mostrati assai titubanti; e inoltre per provare per l’ennesima volta ad affrontare il problema dell’immigrazione dal Centro America, che rischia di danneggiare seriamente le prospettive dei democratici nelle elezioni di midterm.
Partono così gli inviti per i due giorni del summit (9-10 giugno) da tenersi a Los Angeles. Naturalmente, a causa degli antichi e recenti rancori, il Dipartimento di Stato, con l’assenso del presidente, esclude dagli inviti Cuba, definita Stato terrorista e nei confronti della quale Trump aveva ripristinato l’embargo (confermato da Biden); il Nicaragua, la cui colpa è che alla sua guida c’è ancora Daniel Ortega, il leader sandinista contro cui gli Stati Uniti scatenarono negli anni Ottanta la guerriglia dei contras; il Venezuela, per i motivi detti sopra, con l’aggravante che Maduro è rimasto lì, nonostante la gravissima crisi economica, a farsi beffe di americani ed europei che volevano cacciarlo. Che questi tre Paesi siano poco democratici non ha importanza, dal momento che molti altri nel continente (in primis il Brasile) non lo sono. È sempre una questione di Realpolitik, o presunta tale, dal momento che non si capisce in cosa l’esclusione di questi tre Paesi abbia giovato al governo americano. Più comprensibile è il fatto che sotto elezioni non si debbano scontentare i gruppi di pressione di immigrati cubani, venezuelani e nicaraguensi contrari ai regimi dei propri Paesi di origine.
Come che sia, appena resa nota l’esclusione dei tre reprobi, molti Paesi non l’hanno presa bene e l’hanno vista per quello che era: un gesto di prepotenza per fini interni degli Stati Uniti. La reazione più dura è stata del presidente del Messico, López Obrador (vedi qui), che ha annunciato che non avrebbe partecipato al summit. Lo hanno seguito Bolivia, Salvador, Honduras e altri piccoli Stati della regione; altri hanno mandato soltanto rappresentanti di basso rango. Chi ne ha beneficiato è stato l’uomo forte del Brasile, Jair Bolsonaro, che ha ottenuto un caloroso incontro a tu per tu con Biden, facendo così dimenticare le violazioni dei diritti umani e la deforestazione selvaggia dell’Amazzonia. Anche in questo caso della nutrita agenda di problemi – immigrazione, tutela dell’ambiente, traffico della droga e delle armi, diritti umani, democrazia – molto si è parlato e nulla di concreto è stato deciso. Ma – come si usa dire in diplomazia – un summit non si nega a nessuno, soprattutto se è il tuo vicino più potente. Lo schiaffo al presidente è arrivato comunque, secco e bruciante. Lui stoicamente ha fatto finta di niente.