Non bisognava essere dei raffinati ed esperti conoscitori della storia irachena per capire che, a Bagdad e dintorni, dopo la fine del regime di Saddam Hussein a causa dell’invasione angloamericana del 2003, il caos l’avrebbe fatta da padrone. Con la lotta contro gli occupanti – da parte soprattutto delle forze sunnite –, lo scontro tra questi ultimi e gli sciiti, e infine con la guerra contro lo Stato islamico (Daesh), la violenza non ha mai abbandonato lo sfortunato Paese mediorientale. A nulla è valsa la vittoria del potente religioso sciita Muqtada al-Sadr, nemico degli Stati Uniti come dell’Iran, alle elezioni legislative dello scorso ottobre (ha ottenuto 73 seggi su 329, contro i 54 della precedente tornata elettorale), realizzate alla presenza di osservatori dell’Onu e dell’Unione europee, le seste anticipate con una partecipazione al voto del 41%. Il dato più basso, in assoluto, nella storia del Paese.
Al-Sadr, malgrado il successo, non è riuscito a formare un governo di maggioranza, vista la contrarietà del vincitore a includervi anche le forze filoiraniane, peraltro uscite fortemente ridimensionate dalla scorsa consultazione elettorale. L’impossibilità di riformare, com’era sua intenzione, un sistema politico corrotto, lo ha spinto, almeno per ora, a ritirarsi dalla scena politica, rinunciando alla vittoria elettorale dello scorso anno e annunciando anche uno sciopero della fame. Decisioni che non potevano non registrare il plauso delle forze vicine al Paese degli ayatollah. Un fallimento, secondo al-Sadr, causato in particolare dagli altri partiti sciiti filoiraniani.
Ma il ritiro di al-Sadr ha dietro ragioni complesse di carattere politico-religioso. Prima ancora della decisione del principale politico iracheno, c’era stata, lo scorso 29 agosto, quella di Kazem al-Haeri, un’importante autorità sciita (marja’) che ha preso il posto di al-Sadr padre, assassinato nel 1999. Se Haeri – ormai apertamente filoiraniano – ha sostenuto per molto tempo l’attuale leader politico iracheno, ha anche esortato tutti i credenti a seguire solo il leader della rivoluzione islamica iraniana, l’ayatollah Ali Khamenei, accusando apertamente al-Sadr di non possedere né le conoscenze religiose né le capacità per guidare gli sciiti, o il popolo iracheno, perché, pur essendo molto popolare, non è l’erede designato dell’ayatollah Mohammad Sadiq al-Sadr.
La decisione di al-Sadr – che non può assolutamente essere considerata definitiva, visto il consenso del quale gode tuttora – ha portato nei giorni scorsi a una violenta reazione dei suoi seguaci, dietro la quale è difficile pensare che non ci sia lo zampino dello stesso leader sciita, i quali a Bagdad e Basra si sono scagliati – artiglieria e bastoni alla mano, a bordo dei tre ruote “tuk-tuk”, divenuti simbolo della rivolta – contro le milizie filoiraniane, con un bilancio di decine di morti e con tanto di coprifuoco dichiarato dall’esercito. A Basra, roccaforte di al-Sadr, gli uomini del leader sciita hanno attaccato il quartier generale del partito Asai’b Ahl al-Haq, una delle principali milizie pro-Iran, e dato fuoco alle foto di Qassem Soleimani e del suo vice, Abu Mahdi al-Muhandis, fatti saltare in aria da droni americani nel gennaio 2020.
Al-Sadr ha intimato ai suoi di mettere fine alle violenze, e di abbandonare la green zone della capitale, dove si trovano le sedi istituzionali, minacciando, in caso contrario, di abbandonare lui stesso il movimento. Parole apprezzate dal premier Mustafa al-Kadhimi, mentre il presidente Barham Salih si è detto favorevole, malgrado la contrarietà del Quadro di coordinamento sciita (filoiraniano), a nuove elezioni politiche anticipate “per uscire dalla crisi”, nella speranza che il Paese ritrovi stabilità politica e sociale. Ma questo obiettivo potrà essere raggiunto solo se si arriverà a un accordo con l’Iran, il quale ha messo in atto da tempo una guerra per procura contro Bagdad, con il fine di ricavarsi un ruolo nella gestione del potere, in un contesto in cui le relazioni sono ai ferri corti, come dimostra la decisione di Teheran di interrompere i voli tra i due Paesi.
Queste dispute, in cui si coniugano i conflitti religiosi e quelli politici, fanno tornare indietro nel tempo (vedi la guerra tra Iraq e Iran dal 1980 al 1988), e sembrano interessare poco la popolazione. Secondo Francesco Salesio Schiavi, esperto di Medio Oriente e ricercatore presso l’Ispi (Istituto politica internazionale), il voto dello scorso ottobre “è stato in gran parte boicottato da quella fascia di cittadini che, a partire dai moti di protesta dell’ottobre del 2019, aveva chiesto una radicale riforma del sistema politico emerso all’indomani della caduta di Saddam Hussein e che ha visto nella modalità con cui si sono tenute le ultime elezioni la vanificazione delle proprie speranze di cambiamento”.
Fa da sfondo, a questo quadro disperante, la difficilissima situazione economica e occupazionale. In un’intervista rilasciata al quotidiano “il manifesto”, un attivista, che ha preferito restare anonimo, del collettivo Workers Against Sectarianism, è stato chiaro: “Soffriamo di alti tassi di disoccupazione e salari molto bassi, non ci sono leggi sufficienti e i sindacati non hanno potere. Guadagna bene solo chi è vicino alla classe dirigente, che ha bisogno di comprare fedeltà. Buona parte – ha aggiunto il militante – del budget va in corruzione e finanziamento delle rispettive milizie. Le stesse che controllano le vendite sottobanco di petrolio, ferro, armi, esplosivi. C’è grande rabbia, la si percepisce nelle strade: i servizi non esistono, in estate le temperature raggiungono i 50 gradi ma non c’è elettricità, strade e ospedali sono stati costruiti cinquanta-sessanta anni fa. Dal 2003 nessun governo ha investito in infrastrutture”. Dopo che queste ultime – aggiungiamo noi – sono state distrutte dalla guerra condotta dall’Occidente. Margaret Thatcher disse che bisognava riportare l’Iraq “all’età della pietra” – e a quanto pare questo obiettivo è stato raggiunto.