Bellum dulce inexpertis, diceva Erasmo da Rotterdam: la guerra piace a chi non la conosce. Nulla di più attuale, nel momento in cui le conseguenze del conflitto russo-ucraino cominciano a farsi sentire nell’Unione europea. Conseguenze economiche e sociali, che si profilano in tutta la loro pesantezza. La questione del gas impazza nei media vecchi e nuovi, mentre pare scendere il sipario sull’andamento reale del conflitto. Certo, la comunicazione di guerra è parte della guerra (come avevamo sottolineato con Michele Mezza già all’inizio delle ostilità: vedi qui). Era quindi ampiamente preventivato che si sarebbe subito messa in moto, da ambo le parti, la “fabbrica delle notizie”, come la chiamava il più grande tra gli studiosi della opinione pubblica, Walter Lippmann. E sapevamo, inoltre, che la prima vittima della guerra è la verità, perché, parafrasando von Clausewitz, l’informazione è la prosecuzione della guerra con altri mezzi.
Raramente, però, le notizie che circolano sono sembrate così nebulose, se non distorte, come negli ultimi tempi: i media pullulano di omissioni, esagerazioni e di dati non verificabili. Su quello che avviene in quelli che sembrano essere, al momento, i punti cruciali del conflitto – la centrale nucleare di Zaporižžja e l’offensiva ucraina a Kherson –, giungono informazioni contraddittorie e lacunose. La centrale atomica viene bombardata prima dai russi e poi dagli ucraini… in essa sono collocate infrastrutture militari, che però i tecnici inviati per controllare la sicurezza della centrale non vedono. L’offensiva ucraina a Kherson è un grande successo… però forse no… e così via in una ridda di smentite e controsmentite.
Scorrere le principali testate della stampa internazionale non aiuta a chiarirsi le idee. “Le Monde” ci rassicura, ma molto parzialmente: Rafael Grossi, direttore generale della Agenzia internazionale dell’energia atomica (Aiea), intervistato al suo rientro, constata la tenuta della centrale nucleare, anche se dichiara che “la sua integrità fisica è stata violata molte volte” e ha visto “numerose tracce di impatto di bombardamenti (…), il che è completamente irresponsabile”. Tuttavia nella centrale lavorano “fianco a fianco operatori ucraini ed esperti nucleari russi, sorvegliati da militari russi (…), e la centrale è perfettamente funzionale”.
I principali giornali italiani, invece, mettono l’accento sui rischi che la situazione della centrale comporterebbe, citando solo per frammenti il rapporto dei tecnici della Aiea. Se si scorrono per curiosità le pagine online della stampa russa, la sensazione è la medesima: sebbene lo stile espositivo sia molto meno enfatico di quello dei quotidiani “occidentali”, con una comunicazione per lo più molto “abbottonata” e formale, strettamente controllata com’è dalla censura, le dichiarazioni di Rafael Grossi vengono egualmente riportate da “Novosti”, che aggiunge che sarebbero state fornite ai tecnici, venuti a controllare la situazione, anche le prove dei bombardamenti ucraini. Fatto di cui non troviamo riscontro altrove.
Idem per quanto riguarda l’attesa controffensiva ucraina nella zona di Kherson, città di centrale importanza strategica, su cui, dopo gli iniziali entusiasmi per il successo che pareva arridere alla operazione, ora regna il mistero. Le dichiarazioni del presidente Zelenzky, secondo cui “le bandiere sono tornate a sventolare dove dovevano stare”, non hanno avuto seguito. Le fonti ufficiali ucraine, riprese dalla Cnn, invitano ora al silenzio e informano che “i dettagli verranno forniti alla fine delle operazioni”. I russi la mettono in tutt’altra maniera: “Novosti” parla di “feroci combattimenti”, e sostiene che l’offensiva sia stata fermata e che gli ucraini, attirati in una trappola, avrebbero patito gravi perdite.
Anche sul prosieguo del conflitto regna la confusione: mentre le agenzie russe sembrano preparare i lettori a una guerra di lunga durata, ed enumerano seccamente le forniture di armi e gli ingenti aiuti economici che sono in procinto di arrivare all’Ucraina dall’Unione europea e dagli Stati Uniti, molti degli editorialisti “occidentali”, almeno i più ottimisti tra loro, insistono nell’intravedere uno strangolamento progressivo dell’economia russa, in virtù delle sanzioni, e una possibile conclusione della guerra in tempi non lunghissimi, anche se i dati economici più recenti non sembrano confortare questa ipotesi. Lo “Spiegel” invece informa, allarmato, che il governo ucraino avrebbe detto agli abitanti di abbandonare le zone vicine al fronte in vista dell’inverno.
La confusione dunque è grande, si profila una sorta di “grado zero” dell’informazione, in cui auctoritas non coincide quasi mai con veritas, e bisogna diffidare di quanto si legge anche su quotidiani autorevoli. È una guerra narrata ormai per frammenti, per singoli eventi, in cui si perde di vista l’andamento complessivo del confitto. L’attentato riuscito è più importante – e fa più notizia – dell’andamento della linea del fronte, di cui pare occuparsi ormai solo il “Guardian”, oltre alle faziose agenzie russe. È un’informazione blob, in cui la partita della guerra pare giocarsi a colpi di comparsate su “Vogue” più che sulla linea di combattimento, in un pasticciaccio che finisce per perturbare il sistema mediatico.
Tutto normale? L’impressione è che ci stiamo pericolosamente avvicinando al limite oltre cui l’informazione di guerra diventa crisi dell’informazione, con un rischio crescente di credibilità per i detentori del potere, per i media, per i regimi democratici in quanto tali. Soprattutto perché nelle democrazie “occidentali” si è da tempo dimenticato che uno scontro militare modifica le regole sociali, provocando inevitabili forzature nei processi di informazione e di comunicazione, che però non sono esenti da potenziali ricadute, in termini di convinzione e di fiducia. Nel contesto dell’evoluzione delle pratiche mediatiche conosciute, un intervento militare, anche indiretto, non può durare ed essere sostenuto dai media in eterno, l’eccezione informativa non può diventare norma, anche quando il potere politico lo auspicherebbe. Se si intende rimanere all’interno di una comunicazione mediatica democratica, non ci si può asserragliare in una prospettiva monoculare dei conflitti e delle crisi. Allinearsi alla faziosità dell’altra parte, che chiude i giornali dissidenti e incarcera i giornalisti, rischia di comportare rischi non piccoli per le nostre democrazie e per la nostra informazione.