I giornali hanno usato il termine “grande flop” per parlare dell’operazione fiscale pensata per coprire gli interventi a favore di imprese e famiglie in difficoltà a causa del caro bollette. Un autorevole quotidiano nazionale ha parlato di “tesoro negato”, mentre la stampa di destra ha applaudito alla rivolta delle multinazionali e delle grandi aziende dell’energia, che si sono opposte all’“esproprio proletario”. Insigni economisti e commentatori navigati, presi dalla foga ideologica, sono scivolati anche sulla teoria, negando l’esistenza del concetto di “extraprofitto”. Ci si chiede, insomma, dove siano finiti quei dieci miliardi delle aziende energetiche che sarebbero dovuti entrare nelle casse pubbliche. Mentre migliaia di aziende rischiano di chiudere per i costi eccessivi dell’energia e la Confindustria parla di “terremoto produttivo”, i colossi del settore continuano a dire no allo Stato e a qualsiasi forma di “solidarietà”, mentre distribuiscono introiti miracolosi ai loro azionisti. Ma cerchiamo di ricostruire la vicenda e chiarire a che punto siamo.
Decreto “aiuti”, atto secondo
Con il Decreto “aiuti bis”, l’esecutivo aveva programmato di incassare 10,5 miliardi di euro con una tassa una tantum sugli utili extra delle aziende del settore. In due tranche: la prima da pagare entro il 30 giugno (il 40%) e il resto il 30 novembre (per il restante 60%). Ma molte aziende (la maggioranza) hanno deciso di non pagare. Vari staff di avvocati hanno estratto i cavilli più nascosti nelle norme, facendo riferimento a una presunta incostituzionalità della misura. Per questo, oggi, il governo non sa dove trovare i fondi per l’intervento. Ora il tempo stringe e il nuovo decreto o un emendamento a “aiuti bis” dovrebbe arrivare in aula al Senato, per la conversione in legge, il 6 settembre.
Ai tempi supplementari
L’aria che tira non è però delle migliori per il governo. Le prime stime ufficiose indicano che i tempi supplementari concessi fino al 31 agosto, per mettersi in regola con il contributo sugli extraprofitti senza subire la super-sanzione del 60%, non hanno cambiato drasticamente il quadro. Il gettito recuperato fin qui non supererebbe il mezzo miliardo; restando lontano dall’obiettivo pieno che a giugno prevedeva 4,2 miliardi di incassi, cioè il 40% dei 10,5 miliardi totali attribuiti al contributo una tantum.
Ovviamente, i tecnici di Palazzo Chigi ammettono che le cifre finali sono cruciali per costruire l’impianto delle misure che finiranno nel terzo tempo degli aiuti a imprese e famiglie, nel provvedimento atteso per giovedì 8 settembre in Consiglio dei ministri.
Insieme agli incassi recuperati sugli extraprofitti, che diventano di fatto aggiuntivi dopo che l’assestamento di bilancio ha cancellato 9 dei 10,5 miliardi ipotizzati inizialmente, il nuovo provvedimento sarà sostenuto dai margini fiscali prodotti dalle entrate extra delle ultime settimane, trainate soprattutto dall’effetto dell’inflazione sull’Iva dei consumi interni e su quella all’export, gonfiata da energia e petroliferi, ma sostenute anche dallo slancio di settori come il turismo e l’edilizia. Resta invece esclusa l’ipotesi dello scostamento di bilancio, come ha confermato a Cernobbio il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio.
Questa volta i nomi li conosciamo
Ma chi sono i ribelli della super-tassa che tanto piacciono ai giornali di destra? Quali sono le società che rischiano di subire la visita della Guardia di finanza per non essersi messe in regola? I calcoli fatti dagli esperti sono semplici: se tutti pagassero, il gettito totale per lo Stato potrebbe alzarsi, con le sanzioni, ben oltre i 10,5 miliardi totali. Aggiungendo la prima sanzione del 15% sui 3,2 miliardi che mancano, arriverebbero 480 milioni in più. Ma se invece le aziende si orientassero a cercare di spuntarla alla Consulta, quel gettito rischia di trasformarsi in un buco e in un lungo contenzioso. Su “Repubblica”, Valentina Conte ha fatto i nomi. Tra i ricorrenti – ognuno con importanti pool di avvocati – spiccano molte aziende petrolifere come Kuwait Petroleum (Q8), Ip (che “ha pagato l’acconto”, precisa il gruppo), Esso ed Engycalor, entrambe controllate da ExxonMobil.
“Per noi petroliferi la beffa è ancora più clamorosa – racconta una fonte – perché la tassa colpisce anche le accise che siamo obbligati a versare quando vendiamo. Una tassa sulla tassa, ma così il contributo raddoppia, triplica”. Nell’elenco non ci sono invece i colossi di Stato Eni ed Enel. C’è però Acea Energia Spa, la municipalizzata di Roma. E anche Engie Italia Spa, multinazionale francese di luce e gas, compresa Engie Rinnovabili.
Il caso Acea
Contro la tassa sugli extraprofitti Acea ha fatto ricorso al Tar. Il sindaco di Roma, Roberto Gualtieri (Pd), che conserva le deleghe alle partecipate, interpellato da un quotidiano, non ha voluto commentare la decisione di Acea, perché è una società quotata in borsa. Le ribelli delle tasse si sono intanto accordate sulla versione ufficiale da dare: “Va benissimo la solidarietà invocata da Landini, in questo periodo di caro bollette poi figuriamoci. Ma la norma è stata scritta male, è uno strumento grezzo che non colpisce affatto gli utili, ma le dichiarazioni Iva, ed è incostituzionale”.
Solo nel Lazio sono stati quindi depositati almeno venti ricorsi. Non ci vogliono stare i verdi (che, con Sinistra italiana, sono alleati del Pd nella corsa elettorale). Per il portavoce nazionale Bonelli, la rivolta fiscale è uno scandalo: “Oggi vediamo le famiglie italiane che hanno paura di accendere il riscaldamento a casa per non trovarsi con bollette troppo alte. Ma, allo stesso tempo, ci sono aziende che hanno fatto extraprofitti negli ultimi mesi, pari a 40 miliardi di euro. E questa è una colpa perché hanno acquistato il gas prima dello scoppio della guerra, a prezzi molto ridotti e hanno ottenuto guadagni maggiori grazie alla speculazione fatta dal mercato sulla guerra”. Per questo i verdi hanno depositato un esposto alla procura della Repubblica di Roma contro le società insolventi.
L’allarme
È corsa contro il tempo anche dal punto di vista di migliaia di piccole e medie imprese che rischiano di chiudere i battenti, a causa del caro bollette arrivato ormai a livelli stellari. Le imprese, a partire dalle energivore, non possono più attendere, ha detto il presidente di Confindustria, Carlo Bonomi, perché gli extracosti legati all’impennata delle bollette per elettricità e gas, stanno “paralizzando il sistema industriale italiano con il forte rischio di deindustrializzare il Paese e mettendo a repentaglio la sicurezza e la tenuta sociale nazionali”. L’allarme è stato rilanciato dai presidenti di Confindustria Emilia-Romagna, Lombardia, Piemonte e Veneto, Annalisa Sassi, Francesco Buzzella, Marco Gay Enrico Carraro. Solo nell’area industriale di queste regioni l’incremento degli oneri energetici è stimato in oltre 40 miliardi, com’è stato chiarito durante un recente vertice con gli assessori allo Sviluppo economico, Vincenzo Colla (Emilia-Romagna), Guido Guidesi (Lombardia), Andrea Tìonzano (Piemonte) e Roberto Marcato (Veneto). In linea con l’appello del leader di Confindustria, i quattro presidenti hanno rimarcato che la situazione ha carattere di straordinarietà “perché è impossibile mantenere la produzione con un tale differenziale di costo rispetto ad altri Paesi Ue ed extra-Ue, nostri competitor: va a colpire non solo le imprese esportatrici dirette, ma anche tutta la filiera produttiva, con un effetto pesantemente negativo soprattutto sulle piccole e medie imprese”.
La misura dell’extraprofitto secondo la Cgil
In questi giorni di campagna elettorale, anche economisti e commentatori di una certa esperienza hanno commesso errori marchiani dimenticando gli studi universitari. L’extraprofitto non esiste, dicono, esistono solo i profitti. In una nota della Cgil a commento delle misure introdotte dal governo per fronteggiare il caro bollette e l’esplosione dell’inflazione, troviamo una definizione semplice che è utile riportare. “L’extraprofitto è definito come la differenza tra il prezzo ricavato dalla vendita di un bene o servizio e il suo costo medio di produzione. All’interno del costo medio si internalizzano tutti i costi espliciti ed impliciti di produzione, compreso il profitto normale, calcolato sul lungo periodo e in regime di concorrenza perfetta, momento in cui non vi siano incentivi per l’impresa ad impiegare diversamente il capitale né per altre imprese ad entrare nel settore. L’extraprofitto rappresenta una condizione tipica delle forme di mercato non perfettamente concorrenziali, dove le imprese possono determinare i prezzi, che risultano superiori al costo medio di produzione, generando dunque una rendita”.
In ogni caso, i tecnici di Palazzo Chigi non hanno fatto di tutta l’erba un fascio e non tutte le imprese che hanno generato extraprofitti (come definiti dalla norma) se li sono visti tassare del 10% e successivamente del 25%. “La norma – spiega la Cgil – ha infatti introdotto alcune limitazioni. Innanzitutto per settori di attività (sono state tassate le attività di produzione, rivendita e importazione di energia elettrica e gas o di produzione, estrazione, rivendita, importazione, distribuzione e commercio di prodotti petroliferi) e, in secondo luogo, sono state definite alcune franchigie, ovvero l’extraprofitto doveva essere superiore a 5 milioni di euro ed ammontare ad oltre il 10% rispetto al periodo antecedente”. Il sindacato guidato da Maurizio Landini (che è intervenuto più volte sul tema nel corso del mese di agosto) pensa che non solo sia giusto tassare profitti “immeritati”, ovvero non dovuti alla bravura delle aziende, ma che sia necessario anche estendere la platea. Per ora, tuttavia, per come si sono messe le cose, sarebbe già grasso che cola recuperare il dovuto.