Tutto diventa possibile quando il parossismo s’impadronisce della politica, facendole perdere il senso del limite. Non c’è più necessariamente bisogno di una volontà preordinata per scivolare in un attimo dall’insulto al sangue, dal dramma alla tragedia. L’impulso collettivo può armare la singola follia omicida in un continuum di cui nessuno avverte il precipitare nell’irrimediabile, l’incendio impossibile da domare. Da Sarajevo a Dallas e alla santa romana piazza San Pietro (per restare all’epoca nostra, ma tralasciando il terrorismo come strategia e, visto che siamo in Argentina, come guerra a bassa intensità di gruppi armati e dello Stato), l’attentato personale è l’arma occulta della congiura che si fonde con la fede palingenetica trasformata in nichilismo: da qualsiasi parte provenga riassume l’imperativo aristocratico e nullista del “deve essere come deve essere o cesserà di essere”.
Nelle ore immediatamente seguenti all’attentato contro la vicepresidente argentina Cristina Kirchner, il buio metaforico che avvolge la vicenda è ancora più denso di quello della notte d’inverno australe che avvolge Buenos Aires e il Paese. Né stupirebbe che neppure il tempo riesca comunque a dissiparlo. Non sarebbe la prima volta. Si stenta a credere che la Bersa 380 semiautomatica, giunta a pochi centimetri dalla tempia della controversa leader peronista, non abbia sparato solo per una dimenticanza dell’attentatore, che non aveva messo il proiettile in canna. E il cui identikit, per molti aspetti (l’incerta stabilità psichica, i precedenti specifici), richiama quelli di altri protagonisti di attentati politici tristemente famosi. Il brasiliano Fernando André Sabag Montiel, 35 anni, non risulta essere un militante politico, nessuno lo riconosce. Non appare una famiglia alle spalle. Un mancato assassino arrivato, non si sa da dove, a minacciare una guerra civile.
Ma che – oltre ogni intenzione – potrebbe invece decisamente contribuire a evitarla. La storia sbroglia talvolta nei modi meno prevedibili i suoi grovigli. E le masse di popolo che in quasi tutto il Paese stanno mobilitandosi nelle strade per solidarizzare con Cristina e respingere le presunte forze occulte dietro l’attentato, inducono (dovrebbero indurre) tutte le parti alla più attenta e cauta riflessione. Il pericolo è tutt’altro che passato. La scossa emotiva prodotta dall’attentato offre, anzi impone una tregua. La scintilla delle ultime tensioni sono stati i dodici anni di carcere richiesti dal Pm, che accusa Cristina di arricchimento illecito, dopo che il tribunale aveva negato alla vicepresidente il ricorso a un ampliamento della sua autodifesa. La discrezionalità era stata vista come un’ulteriore violazione dei diritti dell’imputata. E i suoi più ardenti partigiani avevano cominciato a stazionare giorno e notte attorno alla sua abitazione privata, come tangibile segno di protezione popolare.
La competizione, per chi dovesse mantenere l’ordine nell’elegante zona urbana, tra la polizia di Buenos Aires (governata dall’opposizione, che sul piano nazionale si richiama all’ex presidente Mauricio Macri) e quella federale (agli ordini del governo peronista), aveva aggiunto altra intemperanza al clima già ardente. In quella folla da stadio, tra i clacson di sostegno a Cristina di molte auto di passaggio, le grida ostili di alcuni vicini, la ressa di giornalisti, fotografi e curiosi si è infilato senza la minima difficoltà l’attentatore. Decine di telefoni cellulari ne hanno filmato l’improvviso levarsi della canna che quasi giunge a toccare la tempia della vicepresidente. Il vorticare nell’etere di quelle immagini, rimbalzate da un capo all’altro del Paese e del mondo, hanno sconvolto l’agitato clima politico argentino e aggiunto ovunque un’inquietudine non minore.
Il ripudio del gesto di Fernando André Sabag Montiel è sostanzialmente unanime, né poteva essere altrimenti. Quanto meno nell’emozione del momento. Governi, personalità di ogni Paese, singoli cittadini, sindacati, organizzazioni varie fanno giungere senza pause alla Casa Rosada messaggi di conforto, di solidarietà, inviti alla pacificazione degli animi. Specialmente intensi dal Brasile, chiamato direttamente in causa dalla nazionalità dell’attentatore. Insomma, un’invocazione alla ragionevolezza che deve presiedere il governo degli uomini e delle donne, dell’intera umanità. Anche dal Vaticano sono partite parole di auspicio alla pace e alla serenità, ovvie epperò non prive di valore anche politico. Le tensioni restano al massimo, ma il richiamo alla responsabilità prevale. Tanto dal punto di vista politico, quanto nella prassi giudiziaria (ricordiamo l’incrocio continuo dei contrasti sociali con le vicende giudiziarie personali ma inevitabilmente anche politiche di Cristina), i tempi disponibili, sebbene stretti, permettono ancora un rigoroso recupero dei diritti di ciascuna delle parti in causa, dai leader ai cittadini tutti.