Tra le peculiarità e le stravaganze a cui la politica italiana ci ha abituati, c’è adesso quella della candidatura di una donna dell’estrema destra di estrazione fascista alla presidenza del Consiglio. Sarà una distorsione o, se si vuole, un capovolgimento del femminismo; ma, come ha messo in luce Anna Loretoni su “terzogiornale”, è comunque lei la prima a “tagliare il traguardo”. Non c’è stata nessuna finora, nel “mondo progressista” (per usare un’espressione volutamente vaga), che abbia raggiunto posizioni di leadership tali da rendere ipotizzabile un suo accesso a palazzo Chigi. Ciò accade invece a Giorgia Meloni: ed è, come vedremo, il punto di approdo di una storia di lungo periodo, che rende l’Italia un caso a sé (a differenza della Francia, per esempio, dove pure la persistente candidatura di Marine Le Pen alla presidenza della Repubblica ha visto, negli anni, la presenza di figure femminili di tutt’altro segno nella competizione elettorale).
Nel fascismo storico, come si sa, le donne non contavano nulla: erano tutt’al più delle eminenze grigie, come l’amante di Mussolini Margherita Sarfatti. Una “gerarca” donna sarebbe stata una contraddizione in termini. Com’è stato possibile, nella evoluzione postfascista, che una donna sia arrivata a ricoprire un ruolo apicale, e che anzi fosse lei, dopo la defezione di Gianfranco Fini, a rilanciare la tradizione dell’estrema destra italiana, con capacità politiche e una “durezza” che un tempo i suoi camerati avrebbero considerato doti esclusivamente virili? La risposta si articola in due momenti: Meloni è infatti postfascista non meno che postberlusconiana.
Cominciamo dall’inizio di questa storia complicata. Dopo la Seconda guerra mondiale, con la sua trasmigrazione in Sudamerica (dove, tra l’altro, trovarono rifugio molti fascisti e nazisti), il fascismo diventa un’altra cosa. Soprattutto con il peronismo argentino, ma anche con la parabola di Vargas in Brasile (come abbiamo ricordato qui), diviene una forma di nazionalismo e di corporativismo economico guidato dallo Stato, mediante il quale, in una chiave “sociale”, vengono incluse nel sistema politico larghe masse di emarginati. È ciò che aveva già messo in luce Gino Germani (vedi il recente articolo di Zanotti). Ma è questa comunque solo la prima fase della trasformazione postfascista in senso nazional-populistico.
Nello stesso contesto, si assiste alla elevazione di una donna, Evita Perón, a grande mito popolare. Come mai questo? Un po’ – si potrebbe dire – fu il frutto di un caso, perché di sicuro la morte precoce di Evita, a soli trentatré anni, contribuì alla sua santificazione. Ma – stando a un’analisi di psicologia sociale – l’elevazione di una donna a onori politici così alti (pur non avendo mai ricoperto cariche ufficiali, non essendo mai stata altro che la moglie di Perón) potrebbe dipendere da un mutato investimento affettivo nei confronti del capo da parte di masse popolari, come quelle argentine degli anni Quaranta e Cinquanta, alla ricerca di una “madre” più ancora che di un “padre” – specialmente se si pensa alla guerra mondiale e a dove aveva condotto il virilismo bellicista.
In Europa, e soprattutto in Italia, ogni progetto reazionario guardò per un lungo tratto all’Argentina: si pensi, per dirne una, ai legami della P2 di Licio Gelli con quel Paese. La formula (al netto dell’inconveniente che, proprio sulla scia di Evita, una parte del peronismo era passato su posizioni rivoluzionarie e guerrigliere) aveva dalla sua il vantaggio di lasciare formalmente impregiudicato il sistema democratico (si consideri che Perón era stato per due volte regolarmente eletto), irrobustendo al tempo stesso oltremisura il potere esecutivo attraverso una buona dose di bonapartismo, esprimibile con l’elezione diretta del capo dello Stato (come del resto avvenne anche nel passaggio dalla Quarta alla Quinta Repubblica in Francia con De Gaulle, ma sotto l’incalzare della guerra in Algeria). Se si mette tra parentesi l’antipatia che il Movimento sociale italiano, figlio di Salò, nutriva per il gollismo, che era stato antifascista, l’evoluzione del postfascismo italiano va nella direzione della Repubblica presidenziale. E questa può essere condita con dosi più o meno massicce di nazional-populismo. Fini, a un certo punto, volle rompere con la tradizione fascista passata in nazional-populismo, puntando a una specie di conservatorismo liberale – e da quel momento sparì dalla scena.
Nel frattempo, tuttavia, ed è una peculiarità italiana, si era consolidato, a partire da un’azienda dei media – e grazie anche a un vuoto legislativo, che ne aveva permesso l’abnorme espansione –, il nuovo populismo berlusconiano. Non si è mai posto, questo populismo, in rottura aperta con la democrazia liberale, e però ne va sottolineato l’aspetto deformante in senso monopolistico, virtualmente totalitario, che raggiunse il top con un organico tentativo di cambiamento della Costituzione (fallito, poi, con il referendum del 2006). Tra i “meriti” storici del berlusconismo, c’è quello di avere stretto un’alleanza con la Lega Nord di Bossi (anche questo un populismo ma su base regionalistica) e appunto con il nazionalismo postfascista, sdoganandolo, come si disse all’epoca. Si arriva così al cartello dei tre populismi che hanno condizionato, con maggiore o minore intensità, la politica italiana degli ultimi trent’anni, dalla crisi di Tangentopoli in poi.
Da notare la circostanza che, come al solito, le convenienze e le connivenze di una classe dirigente, sia pure sedicente liberaldemocratica, sono quelle che aprono la strada all’estrema destra. In Italia, negli anni Venti, senza Giolitti e la monarchia, il fascismo sarebbe stato del tutto contenibile; negli anni seguenti alla fase strettamente resistenziale, la Dc stabilizzò il suo predominio sul sistema politico grazie al contributo delle “trame nere” e dello stragismo (in parte riconducibile proprio al Movimento sociale); e il berlusconismo, successivamente, si è avvalso della sua stretta alleanza con il nazional-populismo postfascista, senza il quale non avrebbe potuto governare indisturbato per diversi anni – cioè fino al crollo del 2011, indotto dai vizi privati del signor Berlusconi, e soprattutto da un intervento dell’Unione europea, che vedeva l’Italia avviata verso una crisi verticale dei suoi conti pubblici, sotto l’imperversare della speculazione finanziaria internazionale.
Non è un segreto per nessuno che il Pd e i suoi alleati (in precedenza i Democratici di sinistra e la formazione degli ex democristiani progressisti) non siano mai riusciti a sgominare elettoralmente il berlusconismo che, più che altro, si è fatto fuori da solo. Ma la cosa più importante, in questo quadro, è andare alle radici sociali del persistente tripopulismo della destra italiana, non riducibile, come alcuni hanno proposto, al neoliberismo che pure ha dominato l’Occidente negli scorsi decenni. Esso è il risultato di una perdita di evidenza e di autocoscienza da parte degli interessi sociali degli strati più deboli e meno garantiti della popolazione, nell’ambito di una trasformazione generale del mondo del lavoro: il che avrebbe dovuto indurre qualsiasi sinistra a una ricerca politica e culturale, e a un adeguamento della propria strategia. Se il Pd oggi non difende, o non difende a sufficienza, i meno garantiti, è naturale che questi si rivolgano a destra. Tanto più che la funzione populistica, nelle sue diverse forme, consiste, più che in un’ideologia, in una comunicazione politica altamente suggestiva, la cui forza è accresciuta sia dai media tradizionali, come le televisioni, sia da quelli di nuova generazione. È infatti intorno al mito della rete che si sono costruite, inizialmente, anche le strabilianti fortune dei 5 Stelle, cioè del quarto populismo italiano, un neoqualunquismo particolarmente elaborato (nella versione di Gianroberto Casaleggio, più che in quella di Grillo) che intendeva mettere a soqquadro l’intero sistema politico, salvo poi integrarsi in esso rapidamente e agevolmente, sia pure con le innumerevoli defezioni e i passaggi di campo indotti dal trasformismo parlamentare.
Allora Giorgia Meloni, postfascista e postberlusconiana – che si appresta a ereditare oggi anche una parte di voti ex grillini – è lo sbocco di una vicenda che si trascina da almeno trent’anni (e di cui abbiamo solo sfiorato il contesto internazionale, che pure conta parecchio). Il suo sovranismo euroscettico, le sue dure posizioni anti-immigrati, e al tempo stesso le sue dichiarazioni di fedeltà atlantica, sono l’espressione di un’estrema destra che in parte si camuffa e in parte si adegua alle chance che le si offrono. Il berlusconismo declinante, ridotto ormai al lumicino, le ha messo inoltre su un piatto di argento, con il vilipendio del genere femminile di cui si è reso responsabile negli anni passati, la possibilità di emergere per contrasto come una protagonista – in parte grazie a un movimento di emancipazione che viene da più lontano, ma soprattutto in virtù del fatto che appare una grossa novità, a destra, un tale “riconoscimento”. E poco importa che questo porti il segno dell’aggressività, tutto sommato meschina, di una “donna in carriera”.