Sono date significative, ormai vicinissime, segnate da precedenti storici clamorosi, e giunte adesso alla prova del fuoco. Il prossimo 4 settembre (lo stesso giorno in cui mezzo secolo addietro Salvador Allende pronunciò il suo primo discorso da presidente: “Si apre un nuovo cammino di libertà e progresso…”), quindici milioni di cileni dovranno ratificare o respingere la nuova Costituzione. La prima scaturita da un processo autenticamente popolare, formulata per sostituire quella imposta dalla dittatura militare di Pinochet. Meno di un mese dopo, il 2 ottobre, centocinquanta milioni di brasiliani (un elettorato gigantesco, in Occidente, secondo solo a quello degli Stati Uniti) saranno chiamati a rinnovare capo dello Stato e parlamento, che i vent’anni della più prolungata dittatura latinoamericana (1964-1984) ed esasperati personalismi hanno frantumato in una trentina di partiti. Sarà anche la verifica popolare degli ultimi, tormentatissimi sei anni di vita istituzionale dell’immenso Paese sudamericano.
È infatti dalla frattura istituzionale, giudiziaria ed essenzialmente politica provocata in quest’ultimo periodo che, nella sorpresa generale, lo sconosciuto deputato ed ex capitano dell’esercito, Jair Bolsonaro, è salito al vertice dello Stato. Occupandolo in fretta e furia con ben quattrocento esponenti delle Forze armate, distribuiti tra governo, alta burocrazia e grandi aziende pubbliche. Per rendere possibile quest’ascesa, era stato necessario, in primo luogo, destituire la presidente eletta Dilma Rousseff (accusata di aver falsato i dati dell’economia per migliorare l’immagine della sua seconda presidenza, 2014-2016); in secondo luogo, neutralizzare la presenza ancora preminente di Lula da Silva, con un’incerta incriminazione per arricchimento personale, con un’incarcerazione illegale e un’incredibile condanna a diciassette anni. Da cui soltanto a giochi fatti, dopo quasi tre anni, nel marzo 2021, è stato scagionato totalmente, riabilitato, così da essere oggi il candidato largamente favorito nei sondaggi (oscilla tra i sette e i quindici punti di vantaggio).
È sui sondaggi che, fino al momento del voto, si destreggia la politica. Ed è una partita contraddittoria, ricca di colpi di scena, giocata sui riflessi di una pubblica opinione incitata ossessivamente a vivere nella quotidiana ripetitività di un ininterrotto presente. A cui reagisce con improvvisi mutamenti, per non dire voltafaccia. Il cambiamento come costante, la costanza come variabile indipendente. Evitiamo di scomodare Zygmunt Bauman e la sua teoria sulla società liquida. Il terremoto dei valori comuni di riferimento, oggi provocato dal prevalere dell’apparire sull’essere come fattore di un rinnovato bisogno identitario, avviene a ogni passaggio d’epoca. Ma come evitare di ragionare sulle fake news, che sono solo l’aspetto più contundente di una comunicazione drogata, la cui sostanziale impunibilità è garantita dalla velocità delle tecnologie di cui si serve? Impossibile, se non al prezzo di perdere completamente di vista la realtà.
Lula rimane a tutt’oggi in testa nei sondaggi, ma in diciassette mesi il vantaggio che gli viene accreditato si è ridotto da venti a sette punti, stando al più pessimista degli ultimi rilevamenti. Tanto lui quanto Bolsonaro non hanno cambiato i rispettivi programmi e promesse. Ma l’attuale presidente non ha limiti nei finanziamenti alla propria campagna elettorale, perché esercita un’ovvia influenza sull’economia di Stato, e ha ancora dalla sua la grande industria privata. Sommerge la rete con ondate di messaggi, in cui accusa l’avversario di ogni nefandezza possibile e immaginabile. La gran parte delle chiese evangeliche se ne fa portavoce: l’ultima è che se Lula vincesse, farebbe distribuire nelle scuole un sex-kit per insegnare ai bambini come si diventa gay. Mentre, se Lula conferma semplicemente di voler preservare l’Amazzonia minacciata dalle iniziative di sfruttamento agricolo e minerario intensivo di Bolsonaro, la borsa di San Paolo subisce un tonfo. Il Brasile è il Paese americano più dipendente da Internet.
Meno vulnerabile, neppure il Cile sfugge tuttavia alle insidie della comunicazione digitale, che si sommano alle difficoltà del governo Boric a gestire cambiamenti come quello dei rapporti – incancreniti da secoli, per via dei mancati riconoscimenti, da parte dello Stato – con la minoranza etnica dei nativi mapuches, tra i quali non mancano ormai i facinorosi. Con il risultato che – ritenuta fino a tre mesi fa largamente scontata, in considerazione degli straordinari due anni di attivo sostegno manifestato dalla maggioranza della popolazione –, giunti alla vigilia del voto, l’approvazione della nuova Carta cilena appare problematica (vedi anche qui). È una sorpresa a metà, in quanto i grandi interessi tradizionali dell’oligarchia cilena hanno subìto il processo di rinnovamento costituzionale senza mai davvero condividerlo. E al quale anche certi gruppi di vertice del vecchio centrosinistra – quello della Concertación, come fu battezzato in Cile – non risparmiano critiche.
Non è stata sufficiente, a frenarle, neppure la disponibilità del governo a prolungare ulteriormente il periodo costituente, varando prontamente un provvedimento legislativo per rivedere la Carta in parlamento. Del resto – era facile prevederlo – le ben 167 pagine, redatte in linguaggio inevitabilmente giuridico dalla Convenzione eletta dal voto popolare, non sono certo risultate un best-seller. Pochi hanno letto l’intero testo con la necessaria attenzione. Incomparabilmente più numerosi sono i commenti che affollano il web, nei quali viene annunciato di tutto, preferibilmente apocalissi e resurrezioni, per timore di passare altrimenti inosservati. Sul quotidiano spagnolo “El País”, il noto scrittore argentino-cileno-statunitense, Ariel Dorfman, ha difeso con passione il carattere democratico, nobilmente inclusivo, della nuova Costituzione cilena. Riservando un amaro sarcasmo alle fake news che le attribuiscono volontà e potere di cancellare la proprietà privata puntando a restaurare il comunismo.