Giorgia Meloni potrebbe diventare la prima donna premier nella storia dell’Italia repubblicana. Altre figure femminili hanno ricoperto e ricoprono rilevanti cariche; da Nilde Iotti a Irene Pivetti, da Laura Boldrini a Elisabetta Casellati, ma nessuna donna è mai stata presidente del Consiglio. Dunque di per sé il fatto è da considerare positivo. In un Paese patriarcale, arretrato e misogino, la possibilità che una donna diventi premier rappresenta, anche simbolicamente, il venir meno di un’esclusione, in contrasto palese con l’origine della politica, della democrazia, dell’uguaglianza, che nascono appunto senza le donne. Questo dato originario si è protratto nel tempo, mutando veste, anche all’interno delle cosiddette democrazie consolidate, limitando fortemente il diritto politico all’elettorato passivo delle donne, e facendo scivolare l’Italia nella parte bassa degli indici del gender gap.
Ci si potrebbe addirittura attendere che, dalla candidatura a premier di Giorgia Meloni, derivi, in futuro, un virtuoso effetto domino, anche all’interno di quelle forze politiche che, a tutt’oggi, resistono all’ascesa delle donne, relegando tutt’al più le competenze femminili ad assessorati e ministeri più marginali. Sulla questione dell’inclusione delle donne nella politica, l’Italia sconta un indubbio ritardo, se la confrontiamo con quanto avviene in molti altri Paesi europei. I partiti di sinistra non potranno non fare un’attenta riflessione sul perché, pur essendo sensibili ai diritti delle donne e alla loro rappresentanza, e sebbene al loro interno non manchino donne autorevoli e capaci, non sarà una loro candidata a tagliare il traguardo.
Va del resto criticamente sottolineato che si assiste, e non da ora, a una certa propensione all’essere “seconde” da parte di molte donne della sinistra. Pur lavorando su temi qualificanti, una politica progressista e inclusiva, a sinistra le donne rimangono spesso in secondo piano, talvolta addirittura silenti, rispetto all’attivismo e al presenzialismo dei leader maschi. D’altra parte, in Italia, sarebbe il momento di ripercorrere criticamente anche la storia di un certo femminismo che, piuttosto ostile alle istituzioni, al riequilibrio della rappresentanza, a una legislazione improntata alle “questioni di genere”, ha contribuito all’estraneità delle donne verso la politica istituzionale, con conseguenze tutt’altro che irrilevanti. La mancata attenzione verso la leadership politica si manifesta oggi anche nella candidatura di una donna di destra.
Che cosa c’è, però, oltre questo primo ma essenziale dato? Per un’analisi più accurata, torna utile la distinzione, proposta tempo fa da Anne Phillips, fra politica della presenza (politics of presence) e politica delle idee (politics of ideas). Ed è a partire da questa distinzione che occorre chiedersi cosa porterà Meloni nelle stanze del potere politico. Giorgia – madre, cattolica, patriota – è senz’altro figlia delle battaglie del femminismo, dell’autonomia delle donne, dell’obiettivo dell’inclusione delle donne nell’arena politica; e ha saputo interpretare il suo ruolo in forma autonoma e vincente, contrapponendosi con autorevolezza ai leader maschi della sua coalizione che vorrebbero provare a marginalizzarla. Questa sua capacità, tuttavia, non ha nulla a che fare con l’impianto di idee, concetti e visioni del mondo che sono stati, nel corso del tempo, elaborati dai movimenti delle donne e dalla riflessione femminista, collocandosi piuttosto all’interno di una mera rivendicazione di posizioni che, da una parte, non intende trasformare le istituzioni e, dall’altra, promuove una visione dell’identità femminile dai tratti totalmente tradizionali. “Dio, patria, famiglia” rappresenta plasticamente questo posizionamento.
Al contrario, un “femminismo ben inteso” porta con sé un’attenzione alla diversità delle individualità; senza rinunciare all’individualismo, ma riproponendolo in termini relazionali e inclusivi. Questo femminismo si fa forte della capacità di includere tutte le differenze, sempre più varie e importanti, a partire dalla rottura dell’unicità del modello falsamente neutro, e fa sua una concezione laica delle istituzioni, un pluralismo dei valori secondo il quale molte delle scelte di uomini e donne non pertengono all’azione dello Stato, il quale peraltro non si limita a non intervenire, ma contribuisce a creare uno spazio pubblico in grado di accogliere, e tutelare se necessario, tutte le differenze: da quelle di genere a quelle relative all’orientamento sessuale, a quelle etniche, di lingua e di religione, nonché alle loro inevitabili intersezioni. In questo senso, il femminismo ha chiesto spazio politico per le donne non per incrementare un dato meramente quantitativo – elemento certo non sottovalutabile, come ho detto –, ma per modificare quelle stesse istituzioni, il modo di fare politica e la versione maschile di esercizio della leadership e della responsabilità. Ma soprattutto, il femminismo fa propria una concezione della cittadinanza che pone i diritti civili, politici ed economico-sociali, su uno stesso piano orizzontale e non lungo una scala gerarchica, in quanto diritti che si richiamano reciprocamente. Di questa visione della cittadinanza è caposaldo l’autodeterminazione delle donne sul proprio corpo, il riconoscimento dei diritti riproduttivi, alla base della libertà femminile.
Rispetto a questo femminismo, Giorgia Meloni si muove in una prospettiva regressiva, in un orizzonte nazionalista e di tipo patriarcale. Nel suo programma, la donna è vista come soggetto di riproduzione della specie nazionale, e la vita familiare è funzionale alla definizione della sua identità, che la vede prima madre e soltanto dopo lavoratrice. Stabilita così la centralità della vita familiare, occorre ricordare che, nel programma di Giorgia Meloni, la famiglia è quella “naturale”, i cui caratteri si stagliano nitidamente come contrari sia alla cosiddetta ideologia gender, sia alle richieste della comunità Lgbtqi+. Questo fatto – del resto ben noto – fa sì che le donne non siano tutte uguali. Esse vanno infatti differenziate, ed eventualmente discriminate, sulla base della loro scelta rispetto all’orientamento sessuale e alla vita privata. Il popolo delle donne a cui pensa Meloni, e a cui va riconosciuta superiorità morale, è includente e al tempo stesso escludente, è omogeneo nei suoi riferimenti valoriali alla tradizione, alla nazione e alla religione, e non ha alcun pluralismo al suo interno.
Chi non si conforma a questa visione sostanzialistica del popolo delle donne, ne è esclusa, sine glossa. È a partire da qui che la concezione meloniana dei diritti delle donne si può strumentalmente sviluppare anche in chiave anti-migratoria, così come aveva già fatto Marine Le Pen in Francia. Le donne che appartengono ad altre culture vengono rappresentate come arretrate, non istruite e vittime della tradizione, e vanno aiutate in un percorso di omologazione ai nostri valori e principi, secondo un atteggiamento “orientalista” ben noto alla teoria femminista. La prima donna premier potrebbe se non abolire almeno rivedere drasticamente la legge 194 sull’interruzione di gravidanza, seguendo quanto già avvenuto a opera della Corte suprema degli Stati Uniti in merito al ribaltamento della storica sentenza Roe vs Wade (su cui vedi qui). Anche senza abrogare la legge, questa potrebbe portare così alla limitazione di fatto dell’autodeterminazione femminile. Questo scenario potrebbe rafforzare la regressiva tendenza, già in atto nel nostro Paese, a ostacolare l’applicazione della legge, fino a renderla del tutto inapplicabile, come già avviene in molte Regioni governate dalla destra. E tutto ciò in nome di un’identità femminile che coniuga, in una forma che non può non interrogarci, protagonismo femminile e valori tradizionali.
*Scuola Superiore Sant’Anna, Pisa