È arcinoto, e su “terzogiornale” ci siamo ritornati più volte, che il Pd ha scelto di “passare” in queste elezioni (come nel gioco delle carte) e di dare partita vinta all’avversario, intenzionato soltanto a misurare l’entità della sconfitta che si profila, soprattutto mediante il giochino del “chi arriva primo” tra Letta e Meloni: risultato del tutto ininfluente ai fini della costruzione di una maggioranza parlamentare, ma che comunque – nel caso di un successo peraltro sempre più improbabile – potrebbe salvare il gruppo dirigente piddino, quando si tratterà di una resa dei conti intorno a una linea politica che, già da ora, appare fallimentare. Si poteva, infatti, perdonare l’avventurismo grillino che, timoroso di perdere ulteriormente voti, ha minato il fulgido percorso del governo Draghi, e proseguire nell’alleanza con i 5 Stelle. Oppure si poteva cercare di mettere insieme una coalizione centrista, con un programma di governo draghiano, e allora bisognava trattare, insieme, con i due improvvisatori Renzi e Calenda. Scartata senza troppe spiegazioni la prima ipotesi e mai risolutamente praticata la seconda (avendo per giunta subìto il rapido voltafaccia di Calenda), la segreteria di Letta vacilla.
Tutto ciò è chiaro. Quello che è più difficile da comprendere è il totale silenzio all’interno del Pd. Lasciamo stare i 5 Stelle, con le loro complicate procedure di consultazione, ancora in parte viziate dall’originario morbo “antipolitico” – ma il Pd? Questo partito ultra-composito, formato da una quantità di componenti e potentati, come mai si è mostrato così passivamente compatto nell’accettare la perdente tattica elettorale del suo segretario? Rispondere a questa domanda sarebbe un’impresa non da poco per dei sociologi, o forse per degli psicologi della politica. Come mai un partito, che si vuole democratico e di centrosinistra, offre così palesemente il fianco alla concreta possibilità di orbanizzazione del Paese?
Siamo qui soltanto nel campo delle ipotesi. Una prima spiegazione – piuttosto banale – dell’acquiescenza mostrata dal corpo piddino è che, quando si discorre di elezioni, un ceto politico, sia di primo sia di secondo piano, è principalmente interessato a difendere i propri posti e le proprie candidature. Con il taglio dei parlamentari, c’è stato ancora più da combattere, all’interno, per difendere le posizioni (non soltanto quelle personali, ma anche quelle degli “amici”); un’alleanza “larga” avrebbe comportato, probabilmente, una lotta perfino più dura, soprattutto per raggiungere quelle candidature nei collegi uninominali ritenuti sicuri. Ciò può essere detto però per i signori di partito, piccoli e grandi, che hanno preferito fare i pesci in barile. Ma la base? Gli iscritti al Pd come si pongono rispetto al cupio dissolvi che sembra essersi impadronito della segreteria di Letta? Beh, in proposito ci viene in soccorso l’articolo di Claudio Bazzocchi, che mostra come il Partito democratico sia vissuto, da molti, quasi religiosamente come il vecchio partitone di una volta, cioè il Partito comunista, la cui linea va seguita comunque, perché è meglio sbagliare con il partito che contro il partito. Tesi convincente, questa, e che tuttavia può essere solo una parte della spiegazione complessiva.
La seconda ipotesi da prendere in considerazione consiste nel risalire indietro di un anno e più, al marzo 2021, al momento piuttosto drammatico delle dimissioni del precedente segretario, Nicola Zingaretti. Questa segreteria fu affossata dalla diatriba interna, mai sopita, tra quelli che immaginano il Pd, molto irrealisticamente, come un partito capace di divenire maggioritario di per sé, cioè senza alleanze o con un minimo di alleanze – prospettiva intorno alla quale era stato costruito il Pd iniziale, quello di Veltroni –, e coloro che invece pensano al Pd come al perno di un sistema di alleanze, fondato su un compromesso con altre forze politiche. Il caso ha voluto (veramente non è proprio un “caso”, ma soggettivamente tale potrebbe apparire a esponenti politici avvezzi a guardare più al centro che a sinistra) che, negli ultimi anni, l’unica forza consistente con cui il Pd possa fare i conti si chiami Movimento 5 Stelle: una roba molto informe, che negli anni ha dimostrato, com’era prevedibile, tutte le sue fragilità.
Già il segretario Bersani si era rotto le corna nel tentativo (dopo le elezioni del 2013, quando il centrosinistra disponeva di un’ampia maggioranza alla Camera ma non al Senato) di stabilire un rapporto con i grillini, che gli consentisse di varare un governo. E fu certo un grave errore, da parte dei 5 Stelle di allora, impedire questo tentativo, dando così indirettamente spazio alla resistibile ascesa di Renzi. In seguito, il rifiuto dell’accordo strategico, e non di occasione, con i 5 Stelle non ha mai smesso di serpeggiare nel Pd, anche dopo la complicatissima stagione propriamente renziana. Sostenitori del renzismo doc sono rimasti nel partito (dopo la scissione dell’ex segretario e la nascita del gruppo di Italia viva), e sono proprio questi, nell’essenziale, che hanno minato la leadership di Zingaretti, convinto sostenitore del rapporto con i grillini. Si pensi che – per citare un episodio secondario ma significativo –, nel momento in cui l’alleanza elettorale con Calenda sembrava cosa fatta, Zingaretti ha palesato la sua scarsa convinzione in proposito, rilasciando una dichiarazione in cui la definiva solo “tecnica”: il che non era, dato che Letta, al contrario, riteneva di avere sottoscritto con Azione e +Europa un patto politico di governo.
Ora, se le cose stanno così, c’è da concludere che l’incomprensibile inazione della segreteria di Letta sia la prova, una volta di più, di un partito bloccato, paralizzato, dalle sue divergenti componenti interne. Un partito cioè non soltanto sbagliato all’origine, nel modo in cui è nato, ma che persevera nell’errore di volere essere tutto e il contrario di tutto, finendo così per non essere né carne né pesce: né un partito veramente di centrosinistra – disposto a fare accordi anche con i populisti, quando questi esprimano, come nel caso dei 5 Stelle, delle istanze sociali –, né un partito fino in fondo centrista, e che allora avrebbe potuto acconciarsi nel suo pregresso renzismo.