Giunto al potere nel luglio dell’anno scorso, il presidente peruviano Pedro Castillo ha dovuto affrontare una navigazione che definire agitata sarebbe riduttivo. Eletto a sorpresa, grazie alla grande frammentazione dello schieramento politico, con la formazione di estrema sinistra Perú Libre, al primo turno era risultato in testa col 18,9% dei voti, al contrario di quanto prevedevano i sondaggi. E al ballottaggio aveva superato per circa settantamila voti Keiko Fujimori, la candidata di destra e figlia dell’ex dittatore Alberto, che aveva chiesto l’annullamento di duecentomila schede elettorali per presunti brogli, senza peraltro fornire alcuna prova a sostegno. Tant’è vero che gli osservatori internazionali, ivi compresa l’Organizzazione degli Stati americani, nulla avevano avuto da eccepire sulla regolarità del voto.
A causa della grave crisi che affligge da anni il Perù, e di cui la miriade di formazioni politiche presenti al Congresso è solo una spia, Castillo è stato fin dall’inizio un presidente azzoppato, perennemente in bilico nella maggioranza che lo sostiene sempre pronta ad affossarlo, ostaggio dell’eterno scontro tra Congresso e governo, contestato sin dall’inizio per la sua vittoria di misura.
Ma la crisi del Paese viene da lontano e solo parzialmente è imputabile a Pedro Castillo, i cui demeriti, comunque, non mancano. Essa ha subito un’improvvisa accelerazione dopo le dimissioni da presidente di Martín Vizcarra, nel novembre del 2021, quando il Perù ha visto avvicendarsi tre presidenti in una settimana. È una crisi che ha pesato anche sul destino personale degli ex presidenti che hanno governato il Paese, che spesso sono finiti in carcere, o sono stati oggetto di provvedimenti di arresti domiciliari. Alcuni sono stati oggetto di indagine per corruzione legata al maxi scandalo dell’azienda di costruzioni brasiliana Odebrecht, che ha travolto una buona parte delle leadership latinoamericane poco tempo fa. Drammatico il caso dell’ex presidente Alan García, che si è suicidato nel 2019 all’arrivo dei poliziotti mandati per arrestarlo.
L’elezione di Castillo, per quanto determinata da una minoranza della popolazione, era stata una reazione alla grave crisi politico-istituzionale, alla cui base c’era la speranza di poter finalmente interrompere la deriva pericolosa di cui il Paese era in balia. La scommessa era quella di liberare le forze vive degli esclusi, grazie a un programma di riforme che finalmente rendesse più equa una società costruita sulla falsariga del neoliberismo autoritario di Alberto Fujimori. A crederci, era stata in primo luogo quella parte di elettorato che aveva premiato il maestro di Cajamarca, vedendo in lui qualcosa di nuovo, un personaggio che si era fatto conoscere come sindacalista del settore della formazione e non apparteneva ai soliti ambienti della politica che conta in Perù.
Ma presto erano sorte le prime critiche per la pessima gestione dell’esecutivo da parte di Castillo, che in meno di un anno ha cambiato circa cinquanta ministri, tra cui sette titolari degli Interni e quattro primi ministri. Lo scorso 5 agosto, ha nominato sei nuovi ministri e ha mantenuto il primo ministro Aníbal Torres, che si era dimesso il giorno prima. Nonostante Torres sia stato duramente criticato per le dichiarazioni a favore di Hitler, per aver sostenuto che al dittatore nazista andasse riconosciuto il merito di avere trasformato la Germania nella “prima potenza economica al mondo”. E nonostante i suoi ripetuti attacchi alla stampa.
Lo stesso presidente è riuscito a evitare per ben due volte di essere dimesso dal Congresso, dove l’opposizione non è riuscita ad avere i voti necessari per mandarlo a casa. Secondo un recente sondaggio, Castillo raccoglie la disapprovazione del 67% dei peruviani, che non è poco. Ma stanno perfino peggio le forze politiche che siedono in parlamento, il cui operato ha raggiunto l’85% del discredito. Ciò si spiega col fatto che i cittadini giudicano il carattere ostruzionista dell’opposizione come non corrispondente al ruolo che essa dovrebbe svolgere. Se il sondaggio dell’Instituto de Estudios Peruanos fotografa anche approssimativamente la realtà, la grave crisi che attanaglia il Paese è spiegata.
Recentemente la magistratura ha aperto la sesta indagine contro il presidente, accusato di corruzione nelle assegnazioni di lavori pubblici nelle regioni di Cajamarca e Lima. Castillo è accusato di avere aggiudicato “appalti fraudolenti” in lavori pubblici per quasi trenta milioni di dollari. La maggior parte delle ventotto opere sono state approvate per la provincia di Chota – di cui è originario – e la provincia di Cajatambo, a Lima. È l’indagine in cui è coinvolta Yenifer Paredes, cognata del presidente, per ricercare la quale era anche scattata una incredibile perquisizione degli uffici della presidenza, dove peraltro risultava residente. Alla fine Paredes si è consegnata agli inquirenti.
Secondo l’accusa, Castillo ha permesso che importanti lavori pubblici fossero assegnati ad aziende vicine alla sua famiglia, in combutta con il ministro Geiner Alvarado, uno dei quattro ministri sopravvissuti al primo gabinetto insediato nel luglio 2021. Viste le vicende giudiziarie in cui Castillo è coinvolto, alcuni parlamentari e avvocati ritengono che un tribunale potrebbe sospenderlo dalle sue funzioni, a seconda di come procedono le indagini.
A distanza di poco più di un anno, della spinta che ha portato Castillo alla presidenza non rimane più niente, e le speranze di cambiamento sono andate deluse. Il malessere sociale è aumentato, anche tra coloro che inizialmente lo avevano appoggiato, che ora scendono in piazza a protestare. La drammaticità della situazione è stata espressa da un recente sondaggio – da cui è risultato che il 65% dei peruviani preferirebbe tornare a votare, anche se lo stesso studio riporta che quasi il 50% ritiene che la situazione sarebbe la stessa o addirittura peggiore con un nuovo presidente. Eletto con Perù Libre, Castillo ha rotto con la sinistra, bloccando il programma di cambiamento su cui aveva chiesto il voto. Spingendosi perfino ad aprire ai settori dell’ultradestra che gli si erano opposti, pur di sopravvivere. Destinando alla carica di ministro degli Esteri un personaggio che solo poco più di un anno fa lo aveva accusato di avere vinto grazie alla frode. E, se le accuse che gli sono mosse sono vere, pur di continuare a mettere a profitto per fini personali la carica che ricopre.
In questa prospettiva di paralisi politica, in cui la retorica populista ha sostituito ogni intento riformatore, pare inevitabile che il destino di Pedro Castillo Terrones sia quello di aggiungersi alla lista dei predecessori che sono stati chiamati a pagare per atti compiuti durante l’esercizio della presidenza. Andando a costituire l’ennesimo episodio di una saga che appare ben lungi dal poter finire se l’attuale classe dirigente non saprà trovare la forza di rinnovarsi imboccando la strada di un cambiamento ormai reso necessario dall’impossibilità di gestire la cosa pubblica. Anche se ciò dovesse comportare il sacrificio di se stessa.