Il presidenzialismo è la passione, o per meglio dire l’ossessione, della destra italiana. Da sempre. Se Mussolini non fosse stato fucilato, dopo qualche anno probabilmente ce lo saremmo ritrovato in parlamento a capo del Movimento sociale (come disse una volta Vittorio Foa), e di sicuro sarebbe stato presidenzialista. La ragione è semplice: in quegli stessi anni, in Brasile, Getúlio Vargas – dittatore a cavallo tra i Trenta e i Quaranta, sull’esempio del portoghese Salazar –, deposto nel 1945, si era dato a una rapida rimonta diventando prima senatore, e poi, nel 1950, di nuovo presidente regolarmente eletto. Miracoli del presidenzialismo – la formula politica tipica dei populismi sudamericani, quella che meglio permette all’uomo della provvidenza di esprimersi.
I fascismi europei furono certo altra cosa dai regimi sudamericani. Se ci si fa caso, però, l’unica maniera che conoscono per evolvere in senso “democratico” è quella dei populismi, più precisamente dei nazional-populismi: anche Marine Le Pen – in fuga da un padre troppo tradizionalmente fascista – in un’intervista ebbe modo di definirsi erede di Perón, all’incirca il corrispettivo argentino del brasiliano Vargas. Del resto, all’origine, lo stesso fascismo italiano (quando Mussolini si considerava ancora “socialista”, subito dopo l’espulsione dal partito a causa del suo interventismo bellicista) fu una forma di nazional-populismo. Dunque sembra che i fascismi, nati dai nazionalismi, a questi non possano far altro se non di ritornare, dopo la caduta dei loro regimi totalitari. La storia dell’estrema destra è un pendolo.
Ma non soltanto i partiti di estrazione fascista sono presidenzialisti; lo è anche una destra, come quella di De Gaulle in Francia, che – in una situazione di guerra in corso, all’epoca quella coloniale in Algeria – riuscì a piazzare il colpo della propria Quinta Repubblica, cancellando l’ordinamento parlamentare precedente. È il cosiddetto semipresidenzialismo alla francese: il presidente della Repubblica, eletto a suffragio diretto, è il capo dell’esecutivo, ma deve rispondere a una maggioranza parlamentare che esprime un governo eventualmente anche “di coabitazione”, cioè di colore diverso rispetto a quello del presidente eletto (al momento Macron, disponendo solo di una maggioranza relativa all’Assemblea nazionale, deve appoggiarsi di qua o di là – ma soprattutto a destra – per far passare i propri provvedimenti). Se non fosse per un meccanismo elettorale univoco (valido non solo per l’elezione diretta del capo dello Stato, ma anche per quella dei parlamentari nei collegi), questo sistema sarebbe fragilissimo e un po’ pasticciato. L’unico elemento che infatti garantisce, non necessariamente ma spesso, la coerenza tra il colore del presidente e quello della maggioranza parlamentare, è dato appunto da una legge elettorale maggioritaria a doppio turno: in grado, tra l’altro, di diminuire di molto le probabilità di successo (almeno fino all’arrivo di Macron, che ha fatto saltare i giochi, con la scomposizione dei tradizionali blocchi politico-elettorali) sia di una destra estrema sia di una sinistra radicale.
La recente storia italiana – a partire dalla crisi politica dei primi anni Novanta, che va sotto il nome di Tangentopoli – è costellata di tentativi di cambiamento dell’ordinamento parlamentare. Tutti falliti. Iniziò D’Alema con la sua Bicamerale, che aveva raggiunto un accordo, in nome di quella che il segretario dell’allora Pds chiamava la “costituzionalizzazione della destra”, intorno all’elezione diretta del presidente della Repubblica e intorno a un “premierato forte”, con l’elezione diretta del premier mediante un doppio turno di coalizione. Un pasticcio inverosimile, che alla fine fu Berlusconi a far saltare. Successivamente, nel 2001, mediante un referendum costituzionale (con soltanto il 35% dei votanti: si ricordi che per questo tipo di referendum non è previsto un quorum), il centrosinistra riuscì a far passare una sua “riformetta federalista” del titolo V della seconda parte della Costituzione: quella a cui dobbiamo la sanità regionalizzata, antefatto della sua crescente privatizzazione (soprattutto in Lombardia). La ratio risiedeva, anche qua, in un inseguimento della destra sul suo terreno, in particolare su quello della Lega di Bossi, con la sua volontà di devolution apparentemente in senso federalista, ma in realtà con il progetto di un distacco sempre più accentuato delle regioni del Nord dal resto del Paese.
Nel 2006, nuovo referendum su una riforma costituzionale organica realizzata dalle destre, che prevede sia il “premierato forte” sia la devolution leghista. Va a votare questa volta il 52% dell’elettorato e il “no” è netto. Infine, nel 2016, altro referendum sull’abolizione del bicameralismo (quello che fa sì che le leggi, così come la fiducia ai governi, debbano passare sia alla Camera sia al Senato) e ancora una volta sull’elezione diretta del premier, con un doppio turno: una riforma costituzionale voluta dal Pd di Renzi, che perderà la scommessa con un’alta percentuale dei votanti, dovendo dimettersi così da presidente del Consiglio (pur senza per questo ritirarsi dalla politica, come aveva dichiarato in precedenza, nella speranza mal riposta di molti).
Il Partito democratico, stando ai fatti, non ha per nulla le carte in regola nella difesa dell’ordinamento parlamentare sancito dalla Costituzione. Tentazioni presidenzialiste hanno attraversato la sua storia, vuoi nel tentativo di sottrarre consensi alla destra, vuoi in quello, più spericolato, di puntare all’affermazione di una leadership. Il presidenzialismo non è più, e da tempo, appannaggio pressoché esclusivo di una destra estrema postfascista. È l’opzione privilegiata di leader che, sentendosi forti in un dato momento, cercano di imporsi o con l’elezione diretta del capo dello Stato o con quella del capo del governo.
Il Pd di Letta dovrebbe cercare di comprendere che cosa siano davvero i populismi contemporanei – al di là dell’uso strumentale dell’epiteto “populista” – prima di dirsi difensore della Costituzione repubblicana. Il suo cambiamento, del resto, non è un tabù: ma si tratterebbe di capire secondo quale direzione. La tendenza odierna va nel senso di un rafforzamento dei poteri dell’esecutivo in forme appena larvatamente bonapartiste. Fu l’obiettivo di D’Alema, quando gli sembrava di avere il coltello dalla parte del manico, non meno che di Renzi. A questo stesso traguardo, senza per fortuna arrivarci, aveva puntato da parte sua Berlusconi, pronto a dare vita, in virtù del proprio impero mediatico, a una sorta di nuovo totalitarismo morbido.
Essere per la difesa della Repubblica parlamentare potrebbe voler significare cercare di fare evolvere il sistema secondo forme di “controllo dal basso”, estendendo i diritti costituzionali politici mediante la creazione di organismi, con funzione se non altro consultiva nella formazione delle leggi, nei luoghi di lavoro e sui territori. Sarebbe altra cosa dai populismi, che prevedono un vertice del potere investito più o meno plebiscitariamente in modo diretto. Il rafforzamento dell’autorità centrale è tutt’altro da una democrazia sociale dispiegata. E un federalismo delle autonomie relative, nel contesto europeo, sarebbe un’opzione ben diversa dall’“autonomia regionale differenziata” di cui si parla, e che potrebbe diventare oggetto di scambio politico all’interno di un eventuale governo delle destre. Ma il Pd non capisce nulla di tutto questo. Il che è implicitamente dimostrato anche dalla sua colpevole inazione sulla questione di un mutamento dell’attuale legge elettorale in senso proporzionale.