(Questo articolo è stato pubblicato il 19 aprile 2022)
L’affondamento dell’incrociatore Moskva, su cui si contende in questa permanente battaglia delle ombre, conferma come oggi i nani non siano più sulle spalle dei giganti – come diceva Bernardo di Chartres nel Dodicesimo secolo – suggellando per lungo tempo il potere della casta dei chierici mediatori. Le tecniche di confronto bellico stanno diventando parte integrante della società, o forse sarebbe meglio dire che i processi di sovversione sociale stanno corrodendo la separazione del mondo militare, dando corpo a una previsione di Vittorio Foa, che nella sua riflessione sul Novecento sosteneva che “il conflitto futuro sarà fra verticale e orizzontale”.
Nel concilio Laterano secondo, tenutosi a Roma nel 1139, si decise di vietare l’uso delle catapulte nello scontro fra eserciti cattolici, mentre se ne permetteva l’utilizzo nei confronti degli infedeli musulmani, perché quella tecnica non appariva compatibile con un’idea cavalleresca del combattimento, in quanto chi manovrava il congegno si teneva fuori dalla portata dei nemici. Con quella decisione, si apriva un lungo percorso che vede oggi la società civile raggiungere e superare le corporazioni religiose e militari nella conduzione di un conflitto armato. L’irruzione della tecnologia – con le prime armi da lancio che allungavano le distanze fra i guerrieri, e poi la polvere da sparo e ancora le macchine belliche, e infine i sistemi di comunicazione ottica ed elettrica – estende il fronte dei combattimenti all’intera infrastruttura sociale.
I dati più drammaticamente tangibili, che confermano questa tendenza, sono le statistiche della Croce rossa, che dicono come dalla prima alla seconda guerra mondiale le vittime civili passano dal 10 al 50% del totale dei morti, e oggi, in Ucraina, arrivano al 90%. La socializzazione della guerra – perché di questo si tratta –, ossia un processo che vede l’intera società civile coinvolta attivamente nei combattimenti, propone due aspetti che parlano direttamente alla politica: in primo luogo, osserviamo come lo scontro bellico, soprattutto in chiave difensiva, quando si gioca sul proprio terreno e si difende casa propria, non può prescindere più dal consenso e dalla partecipazione delle componenti organizzate della popolazione, che condividono e partecipano alla stessa conduzione della guerra, diventando anche soggetti decisionali della partita; il secondo punto – conseguenza del primo – consiste nel controllo sociale che si esercita sulla direzione degli eventi militari e sull’epilogo, la pace o l’armistizio, che inevitabilmente dovrà essere condiviso da tutte le forze combattenti, a partire dai civili.
Esattamente questo è il fenomeno che si sta dispiegando sotto i nostri occhi, nel terribile laboratorio ucraino. In questa guerra sta prevalendo sui format tradizionali degli eserciti novecenteschi – basati sulla combinazione di fanterie, artiglierie e aviazione – un inedito mix di intelligenze sociali e tecnologiche, che produce danni micidiali al nemico, costringendolo a operare in una condizione di subalternità, pur disponendo di forze quantitativamente superiori.
In una eventuale sede politica in cui, da sinistra, ci si interrogasse sulle procedure e i valori per dare senso a una nuova idea di macchina politica – diciamo una forma-partito, al tempo della società dell’informazione –, potremmo dire che questa guerra mostra quali siano i linguaggi, le motivazioni e le procedure per cui la frammentazione individuale della società contemporanea possa ricomporsi mediante una comune interpretazione della potenza di calcolo. La guerra in corso ci dice che, per ogni strategia politica che implica un vincolo di solidarietà e disciplina, è essenziale un fine condiviso (in questo caso la difesa del Paese) e una procedura organizzativa che coinvolga chi si mette in gioco. In Ucraina vediamo, infatti, un processo di coinvolgimento di tutte le componenti nella declinazione sia della tattica militare sia delle condizioni per un’eventuale trattativa. In questo gorgo sta quindi cambiando l’idea di Stato, e mutano al tempo stesso il ruolo e la funzione delle élite tecnocratiche che lo gestiscono.
Come scriveva Manuel Castells nel suo La nascita della società in rete (Bocconi editore, 2000), un testo che andrebbe riletto proprio alla luce dell’implacabile conferma che ne ha dato la storia successiva: “Lo Stato nell’economia informazionalista si identifica mediante la commistione di violenza e comunicazione (…), in cui le reti modificano la società in base alla velocità di connessione”. Siamo ora in presenza delle più concrete e persuasive modalità, con cui perfino la guerra viene piegata alla potenza della connessione e condivisione di dati e sistemi di calcolo.
Quasi vent’anni dopo Castells, troviamo un altro punto di vista che conforta questa visione, in cui le tecnologie computazionali sono, per dirla riprendendo la nota metafora di Marx, il mulino digitale che riclassifica le relazioni di produzioni e di potere nel mondo. Il libro L’arco dell’Impero (Leg editore, 2021), scritto nel 2016 dal generale cinese Qiao Liang, nella sua spietata disamina della crisi del primato americano, coglie esattamente la faglia lungo la quale si scompongono sia il mercato sia il sistema istituzionale. Proprio pensando alle nuove strategie geopolitiche e militari, il generale Qiao Liang, parlando anche al suo governo della pervasività sociale delle nuove modalità tecnologiche, scrive: “Le consideriamo un semplice strumento che dovrebbe essere guidato e utilizzato dagli esseri umani. Non ci rendiamo conto che l’evoluzione tecnologica influenza e modella la nostra visione del mondo, i nostri valori, le nostre storie, mentre ci aiuta a perseguire ed a produrre la ricchezza, un tempo con la caccia e con la guerra, poi con l’agricoltura e le catene di montaggio, e adesso con la finanza e i computer, sta anche rinnovando in profondità le nostre relazioni umane, etniche e internazionali. Come la guerra”. Questa metamorfosi socio-antropologica, in corso da almeno mezzo secolo, mediante l’implementazione genetica nella nostra vita con modelli e procedure automatiche, si realizza lungo due crinali – spiega ancora l’autore – “dall’evoluzione di internet non possono che derivare due enormi tendenze: la decentralizzazione e la demonetizzazione”.
Il combinato disposto di questi due modelli di vita – l’emancipazione dagli apparati mediatori delle decisioni individuali, e un potere di scambio sempre meno determinato dal primato monetario – sta minando le gerarchie politico-istituzionali, e introducendo forme ed esperienze di relazioni del tutto inedite.
Questa talpa ha lungamente scavato sotto i nostri piedi, provocando, come intuì fra i pochi Castells, il collasso del modello centralizzato sovietico, provocato, secondo il sociologo spagnolo, non da una generica domanda di libertà di una società civile che ancora oggi non vediamo esprimersi in Russia, quanto invece dall’inadeguatezza industriale e amministrativa di un sistema economico definito “produzione senza innovazione e informazione”. Ci sembra questa rigidità verticale il motivo dell’inaridimento delle repubbliche euroasiatiche post-sovietiche, che dà una persuasiva spiegazione anche del sorprendente andamento di questa prima fase della guerra con Kiev, in cui le forze del Cremlino continuano a soffrire. La capacità di calcolo, a Oriente, viene ancora oggi interpretata come una materia prima con cui alimentare lo stesso sistema di comando centralizzato, e non come un linguaggio che scompone e moltiplica la capacità di realizzazione dei singoli individui, la cui confluenza cooperativa crea masse critiche momentanee.
In sostanza, volendo arrivare al vero principio di autorità rispetto al quale attrezzare una risposta conflittuale, se l’algoritmo, che è l’unità di programmazione e automatizzazione delle nostre relazioni, come sostiene Alexander Galloway “è l’unico sistema razionale che trasformando l’azione in senso è inconsapevolmente eseguibile” potremmo convenire, osservando come si combatte in Ucraina, che la società civile di un Paese sia oggi un sistema che – tramite soluzioni di connessione ed elaborazione dati istantanee – trasforma l’azione in senso, rendendo la propria missione inconsapevolmente eseguibile. La resistenza ucraina, insomma, nella prima parte della contrapposizione alla potenza russa, è riuscita ad arruolare nell’azione militare proprio l’infrastruttura sociale, convertendo l’azione militare in un senso comune che ha portato centinaia di migliaia di cittadini a concorrere a una strategia di neutralizzazione della forza militare avversaria. Siamo in un tornante che è parte di una lunga marcia di riappropriazione di saperi e abilità, fin qui sequestrate dai ceti tecnocratici, per giustificare un dominio di classe.
Esattamente com’è affiorato nelle more di quella pandemia che ancora non abbiamo archiviato, nella quale abbiamo reclamato una democratizzazione della scienza medica, chiedendo di poter essere informati e coinvolti nelle decisioni più sofisticate, e riprogrammando quella medicalizzazione della società in cui Michel Foucault vedeva la radice di un autoritarismo congenito, oggi ci troviamo a praticare – anche nella più brutale e insopportabile delle scelte umane, la guerra, con la sua inevitabile pianificazione di distruzioni e proliferazione di vittime – una procedura di condivisione dell’intera popolazione, con le sue strutture intermedie, nella resistenza armata, estendendo il livello di trasparenza, informazione e condivisione delle scelte strategiche più riservate.
Non per questo la guerra diventa più umana e accettabile, ma a questo stadio di condivisione della difesa rispetto a un attacco, che si realizza attraverso un’ulteriore torsione tecnologica, vediamo come si accresca l’opportunità di controllare, contestare e vincolare le decisioni di vertice mediante un non più esorcizzabile consenso di massa. In questa guerra le masse ucraine esprimono quotidianamente il loro consenso spostandosi: fuggendo per poi rientrare, scappando per meglio combattere, collegandosi per informare. Il contrasto al nemico diventa un fenomeno di partecipazione intellettuale e sociale, che coinvolge l’intera società civile, attraverso le sue forme di organizzazione, rappresentazione e mediazione con le istituzioni. Si combatte come si governa.
La linea del fronte, in Ucraina, attraversa, materialmente, quel metaverso immateriale definito dall’attività di piattaforme e app che incanalano le più ordinarie attività di vita. Le modalità di fruizione di sistemi come Google e Amazon, basati sulla collaborazione attiva degli utenti e sulla capacità di trasformare i dati in profili, sulla potenza di condividere conoscenza e notizie, diventano strategie di risposta a un attacco militare che mira a disarticolare il territorio avversario.
In questa evoluzione socio-militare, scompare la linea di demarcazione fra i corredi civili e quelli militari: i siti web, le piattaforme, i software, i motori di ricerca, i social, il cloud. Una cassetta degli attrezzi che attraversa e scavalca la tetra frontiera fra guerra e pace.
Si realizza la folgorante previsione – ancora di Manuel Castells – che legava ogni attività umana, e dunque anche la guerra, all’eccezione antropologica dell’unicità umana: “Ciò che è cambiato non è il tipo di attività che impegna l’umanità, ma la sua abilità tecnologica nell’impiegare come forza produttiva diretta ciò che contraddistingue la nostra specie come eccezione biologica: la sua superiore capacità di elaborare simboli”.
Ovviamente, non stiamo celebrando vitalisticamente un nuovo gioioso rito della guerra, ma cercando di comprendere, invece, come la peggiore delle sopraffazioni, quale è sempre un’azione di conquista e di umiliazione di un soggetto ritenuto inferiore, possa essere ostacolata, sapendo bene, come scrive Max Tegmark – autore del testo guida delle forme di intelligenza artificiale, Vita 3.0 (Cortina editore) – che “la tecnologia sta dando alla vita la possibilità di svilupparsi come mai in precedenza. O di autodistruggersi”. E la guerra è certamente il modo più inesorabile di autodistruzione. Per evitare questo drammatico epilogo, dobbiamo fermare la guerra realizzando un equilibrio delle forze che, come insegna la storia, è uno dei vincoli in grado di limitare il ricorso alla soluzione bellica, o un freno a una sua pratica prolungata da parte di chi ritiene di poter vincere.
L’aneddotica di queste settimane di guerra ha mostrato come un Davide plurale possa inchiodare un disorientato Golia. I mille episodi che parlano di georeferenziazione dei telefonini – con cui vengono individuati, dagli abitanti dei centri urbani accerchiati, i diversi reparti nemici, poi colpiti da postazioni mobili –, e lo stesso mistero dei generali eliminati al fronte, sette in un mese di combattimenti rispetto ai tre persi in Afghanistan dalla Russia sovietica in dieci anni, la capacità di interferire nei sistemi di comunicazione dei reparti russi, mediante app e software commerciali, il supporto della flotta satellitare Spacelink del gruppo Musk, che ha permesso a militari e civili ucraini di continuare a muoversi sul territorio con una visione completa della distribuzione delle forze nei diversi scacchieri, ci dicono come la logica decentrata di queste soluzioni tecnologiche imponga un modello di distribuzione non solo degli impegni e delle strategie, ma delle facoltà decisionali non demandabili a centri di comando distanti e lenti nella trasmissione degli ordini.
Da questa tragica esperienza, uscirà sicuramente un diverso assetto geopolitico del continente, così come verrà del tutto ridisegnata la geografia della rete, che per lungo tempo sarà balcanizzata nella sua identità e coinciderà con il fronte occidentale. Ma emergerà anche un protagonismo delle comunità civili, una potenza della società civile, un sapere di generica folla, che sempre meno potrà essere declassata a solo elettorato passivo. L’idea di governo di un Paese, e la stessa forma dei partiti e sindacati, non potranno non essere influenzate da questa stressante mobilitazione popolare.
Al netto dell’epilogo diplomatico e militare che il conflitto avrà, siamo in presenza di un salto antropologico. Un’evoluzione che interferirà con gli stessi assetti gestionali e proprietari dei centri di calcolo, che avranno certo da incassare il merito di aver supportato la resistenza ucraina – come stanno facendo Google, Twitter e Facebook –, ma inevitabilmente si troveranno dinanzi utenti e consumatori più consapevoli ed esperti.
In Ucraina viene seppellito per sempre il detto di Confucio per cui “si può indurre il popolo a seguire una causa ma non a comprenderla”. E si apre una storia in cui – come constata ancora il generale Qiao Liang, non si sa con quanto entusiasmo, riferendosi agli americani ma parlando ai vertici del suo Paese – “[gli americani] non capiscono come internet, di cui sono così orgogliosi, sia diventato la fine del monopolio dell’informazione e, per estensione, la fine di ogni potere, compresa l’egemonia”.