Falsa vittoria quella del presidente tunisino Kaïs Saïed. Perché se il referendum, organizzato in occasione del sessantacinquesimo anniversario della proclamazione della Repubblica, con il fine di approvare o respingere la nuova Costituzione, è stato vinto con la classica percentuale bulgara del 92,3%, l’afflusso alle urne è stato invece solo del 27,54%, ovvero 2.458.985 elettori su 8.929.665 iscritti. Per questa ragione, sarà un po’ difficile parlare di un successo. Non essendo previsto un quorum, la nuova Costituzione, che conferirà nuovi poteri al capo dello Stato – dalla funzione “esecutiva” con l’aiuto di un governo che condizionerà fortemente il potere legislativo, a quello giudiziario –, sarà di fatto approvata.
Immediate le reazioni del presidente, da un lato, e dell’opposizione dall’altro. Saïed, malgrado tutto, ha subito parlato di un grande successo che consentirà, ha detto, “l’apertura di una nuova fase” che prevede, innanzitutto, la presentazione di una bozza di una legge elettorale che dovrebbe modificare l’attuale sistema”. Il presidente si è soffermato su temi cari a pezzi dell’opposizione: “Non possiamo più tornare indietro – ha sostenuto il leader tunisino – e non possiamo in alcun modo fare a meno dei diritti delle donne o rinunciare al diritto all’istruzione e alla salute”.
Va ricordato che, alla testa del governo, c’è Najla Bouden Romdhane, docente universitaria, e altre otto donne ricoprono altrettanti dicasteri. Dal canto suo, l’opposizione ha contestato la legittimità del voto, ma anche su questo Saïed è stato chiaro: “Chi ha scelto di boicottare ha fatto una scelta libera, ma avrebbe potuto partecipare e votare no”, ha affermato il capo dello Stato, che ha voluto rassicurare la popolazione su eventuali rischi di una involuzione autoritaria, “perché – ha detto – la legittimità del presidente è data dal popolo”. Parole che non hanno convinto il Fronte di salvezza nazionale, formato da cinque partiti, tra cui l’islamico Ennahda, il cui leader Rached Ghannouchi era presidente del parlamento prima del colpo di Stato, e altrettante associazioni, che hanno definito i risultati del referendum “un fiasco e l’intero processo di voto una recita”. Contestate anche le cifre uscite dalle urne, rese note ieri dall’Autorità superiore indipendente per le elezioni (Isie), definite irrealistiche, mentre il ruolo giocato da quei pochi osservatori dell’Unione africana della Lega araba e del Carter center è stato praticamente nullo.
La coalizione chiede dunque “le dimissioni di Saïed e l’organizzazione di elezioni presidenziali e legislative anticipate”. Gravi gli ostacoli che giornalisti tunisini e stranieri hanno trovato nel tentativo di garantire la copertura del referendum, come ha denunciato il sindacato dei giornalisti. Dunque la luna di miele fra il presidente (eletto il 23 ottobre del 2019, con il massimo dei voti nella storia dell’ex colonia francese, e autore il 25 luglio 2021 di un colpo di Stato: vedi i nostri articoli del 3 settembre 2021 , 4 ottobre 2021 e 6 luglio 2022) e la popolazione, con la conseguente cacciata del primo Ministro ad interim Hichem Mechichi e la sospensione dei lavori del parlamento, sembra giunta al termine.
In un primo momento, infatti, la popolazione aveva accolto con favore la destituzione di un esecutivo considerato corrotto, ma poi l’autoritarismo del presidente, da un lato, contestato prima del voto referendario da numerose manifestazioni represse dalle forze dell’ordine (in campo con 84.000 agenti), e la mancata risoluzione dei gravi problemi economici, dall’altro, in particolare negli ultimi mesi l’aumento dei prezzi alimentari e del carburante – in una situazione esasperata dalla guerra –, hanno determinato un calo drastico dei consensi per Saïed.
La Tunisia ha un ruolo strategico importante, sia per il continente africano sia per l’Occidente, oltre a essere l’unico Paese arabo ad aver tratto degli importanti vantaggi democratici dalle “primavere arabe” del 2011, con l’instaurazione di un regime parlamentare. Dicevamo dell’economia, i cui problemi scatenarono le proteste di undici anni fa, con l’incredibile drammatico gesto di Mohamed Bouazizi, un giovane ambulante che si era dato fuoco davanti alla sede del governatorato di Sidi Bouzid, perché gli era stata sequestrata la merce, unica risorsa che avesse per vivere.
Le cose da allora non sono cambiate. Per monsignor Ilario Antoniazzi, vescovo di Tunisi dal 21 febbraio del 2013, “da mesi e mesi la gente non riesce a vedere la prospettiva di un futuro migliore. I prezzi sono aumentati e – ricorda l’arcivescovo – si fa sentire la crisi del grano perché anche la Tunisia è tra i Paesi che lo importano dall’Ucraina. C’è stato un momento – spiega – in cui è mancato il pane, e questo non può lasciare la popolazione indifferente”. Dietro le manifestazioni di piazza che accompagnano ormai quotidianamente la vita della popolazione, non c’è solo il malcontento per una quasi certa deriva autoritaria, che ricorda i tempi del deposto Ben Ali. È emersa, in questi undici anni di democrazia, anche l’inadeguatezza delle forze politiche in campo a guidare un Paese così complesso e in perenne crisi, nessuna delle quali in grado di rappresentare una garanzia per il futuro. Ma un eventuale fallimento cancellerebbe la democrazia più avanzata nel mondo arabo. Tutto questo a fronte di una popolazione costituita soprattutto da giovani istruiti, molti dei quali laureati, desiderosa di vivere in un Paese libero e poco disposta ad accettare derive autoritarie.