Consultato dalla nuova rivista di geopolitica diretta da Dario Fabbri, “Domino”, Pierguido Iezzi – un manager digitale altamente accreditato nel settore della sicurezza informatica, avendo fondato una società che lavora alacremente, in questi mesi, per monitorare e analizzare i rischi che incombono sugli apparati nazionali – ha spiegato che non dobbiamo sottovalutare la pervasività ed efficacia delle azioni dei russi solo per il flop che abbiamo registrato in Ucraina nella prima parte della guerra. La forza d’impatto di quei reparti di guastatori rimane molto pericolosa. Ma da tempo, diciamo dalla svolta di Cambridge Analytica, il concetto di sicurezza informatica si è discostato dalla semplice tenuta e resistenza delle infrastrutture digitali, ed è sempre più intrecciato con l’idea di senso comune e di attrito fra gli interessi sociali di una comunità.
I primi passi di questa arroventata campagna elettorale stanno confermando che il lavorio digitale è già in azione, e mira a cristallizzare il sovversivismo dei ceti medi – parafrasando Gramsci –, dando voce e linguaggio a rivendicazioni che, proprio nel brusio atomizzato della rete, possono diventare senso comune. Su questo tema, si continua a girare a vuoto: le istituzioni sono paralizzate dal potere delle lobby, i partiti sono estranei a questi meccanismi, i movimenti ignorano di essere oggetti di queste strategie.
Si lascia così campo libero alla deformazione del legittimo convincimento, che ormai è cosa radicalmente diversa dall’archeologica azione dei persuasori occulti, che comunque lavoravano a livello di massa, mentre oggi si è neurologicamente capaci di rivolgersi ai singoli lobi di un singolo cervello.
Da anni, ci si rimpalla lamentosamente la responsabilità dell’inerzia politica dinanzi al totalitarismo digitale, almeno dalle elezioni presidenziali americane del 2016, quando un sorprendente, allora, debuttante e avventuroso miliardario di New York seppe orchestrare un mosaico di rancorosi microconflitti che attraversarono i territori degli Stati più contendibili nella corsa alla Casa Bianca. Sappiamo come finì, ma ancora non abbiamo capito bene com’era iniziato.
La raccolta di dati (che Brad Parscale, il capo della campagna digitale del candidato Trump, spiegò come fossero facilmente recuperabili: bastava un assegno da cento milioni da versare a Facebook) permise la programmazione di una mappa di centinaia di migliaia di profili di elettori da identificare proprio nelle contee più ballerine. Infine, un fuoco di fila di messaggi e informazioni diretto a questi profili, mediante migliaia e migliaia di bot, che deformano e alterano il clima e la psicologia degli utenti elettori.
È un gioco micidiale, che individualizza il processo di formazione dell’opinione pubblica, sostituendo all’agorà e a uno spazio pubblico – in cui giornali e tv mettono in vetrina le proprie forme di comunicazione che ognuno può contestare o correggere –, un profluvio di canali monodirezionali, che raggiungono un solo elettore, attraverso cui sono veicolati contenuti e notizie coerenti e ammalianti per il profilo e le caratteristiche psicologiche del destinatario, estratte precedentemente dalla sua attività in rete. Christopher Wylie, il giovane talento che elaborò l’algoritmo di Cambridge Analytica, ha descritto dettagliatamente questa orchestrazione voto per voto, spiegando che “si muta il senso della storia riprogrammando l’opinione pubblica, cervello per cervello, per milioni di volte”. E come ha teorizzato il capo di stato maggiore russo Valerij Gerasimov, “oggi la è la stessa guerra che si conduce mediante l’interferenza nel senso comune e nelle psicologie dei Paesi avversi”.
A questo punto, diventa essenziale che la politica, la sinistra, le organizzazioni sociali e civili, assumano con forza questo tema: la trasparenza della rete è condizione pregiudiziale per una trasparenza delle elezioni. Non si tratta di combattere semplicemente la diffusione delle fake news, quanto piuttosto di rendere il web un luogo di produzione e condivisione di notizie alla luce del sole, e non attraverso canali clandestini che arrivano direttamente sui telefonini di milioni di utenti, prevalentemente collocati nelle aree dei collegi elettorali più contendibili, all’insaputa del resto della comunità.
Come sappiamo, il giornalismo, fin dalla nascita degli Stati nazionali nel Diciassettesimo secolo, è un motore fondante della democrazia perché rende pubbliche le notizie e permette a tutti di conoscere cosa viene diffuso per poterlo eventualmente contestare e correggere. L’opinione pubblica si forma proprio mediante un meccanismo di dialettica, sulla base di un flusso di contenuti noti a tutti. Ma se io, cittadino o giornalista, non so cosa viene recapitato a ciascun singolo utente, come mi sarebbe possibile intervenire e concorrere, così, a una più consapevole informazione, integrando e discutendo quel contenuto?
In questi ultimi anni – lo spiega bene Jill Abramson, nel suo fondamentale Mercanti di verità (edito da Sellerio) –, accanto all’informazione trasparente di massa, si è affermato un sistema basato su quello che definisce “l’abbinamento di ogni notizia con ogni singolo destinatario”. Un processo di personalizzazione che dal marketing è decaduto rapidamente a forma di manipolazione e intromissione opaca, che mira a condizionare direttamente la conoscenza e la formazione psicologica di ogni utente. Dobbiamo, per questo, giocare subito la partita della trasparenza. La Federazione nazionale della stampa, insieme con le associazioni stampa regionali e i comitati di redazione, dovrebbe promuovere una mobilitazione per assicurare norme plausibili e coerenti con la nostra deontologia professionale.
Innanzitutto, l’Agcom deve pretendere di avere e rendere pubblico il piano degli investimenti nella rete dei partiti. Marco Mayer della Luiss ha spiegato dettagliatamente le ragioni di questa richiesta. Non solo dobbiamo sapere quanto ogni partito spende in rete – ma per che cosa. Dobbiamo rendere pubblici eventuali investimenti per l’acquisto di dati territoriali o per la parcella di società di profilazione. Ognuno ha il diritto di conoscere i meccanismi di cui ci si avvale al fine di conquistare il consenso per governare il Paese. E i giornalisti devono assicurare che la propria deontologia sia oggi una delle forme di massima garanzia per una competizione la più trasparente ed egualitaria possibile.
Il secondo punto riguarda l’abilitazione dei bot. I sistemi automatici di bombardamento di contenuti non possono essere impunemente usati in campagna elettorale. Sono strumenti che forzano il libero arbitrio, esponendo le volontà a una pressione indebita. In campo pubblicitario sono tollerati; ma quando è in discussione la delega per il governo del Paese e la qualità della democrazia non si può affidare alla potenza degli algoritmi il libero convincimento di ciascuno. Dobbiamo, come giornalisti, chiedere che la politica intervenga subito e approvi norme per rendere identificabili i bot, distinguendoli così dai post degli esseri umani, interdicendo il ricorso a questi strumenti per l’attività di propaganda elettorale. Tocca a noi ribadire, come sostiene una vecchia regola affermata dalla Corte suprema americana ai tempi dei “Pentagon Papers”, che la libertà d’informazione serve ai governati e non ai governanti.